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Era il 18 maggio del 1988 quando è morto. Quando è stato ucciso da un tumore: quello della giustizia italiana. È morto nella sua casa di Milano e la sua salma venne portata in sacrificio nella Basilica di Sant’Ambrogio. Un errore fu quello di non portare le manette, quella stessa mattina, sotto la Procura di Napoli che lo accusò ingiustamente. Dopo 26 anni certi tribunali e certi magistrati continuano ad amministrare la giustizia a modo loro. Inscenano arringhe in tv grazie ai soliti quattro straccioni di giornalisti loro servi.

Nulla è cambiato da quella mattina. Anzi: tutto è peggiorato. Il 17 giugno del 1983 la Procura di Napoli ordinò ai carabinieri di andarlo a prendere e ammanettarlo. Le forze dell’ordine ubbidirono. Dopo averlo prelevato da casa come un delinquente qualsiasi e portato presso il comando del reparto operativo di Roma, lo ammanettarono e fecero impressionare sulle pellicole fotografiche i propri sguardi compiaciuti. Che eroi. Eroi che avevano arrestato una rispettabilissima persona sulle esclusive dichiarazioni di due assassini recidivi: Giovanni Pandico, Pasquale Barra e Giovanni Melluso.

VIDEO DELL’ARRINGA

Alle quattro e un quarto del mattino del 17 giugno, bussano alla porta di una camera dell’Hotel Plaza di Roma. Spalancato l’armadio, aperta una valigia, sequestrata un’agenda telefonica, guardato dentro ai calzini e spaccato un salvadanaio di ceramica a forma di porcellino (non si sa mai) si portano via un uomo stralunato, che ha appena avuto il tempo di vestirsi e di raccogliere pochi effetti personali in una sacca di tela rossa”. È il prologo del libro ‘Applausi e sputi‘ di Vittorio Pezzuto. E continua:”Quando scendono con l’ascensore nella hall deserta il portiere di notte ha appena il tempo di mormorare – dietro al banco, la testa bassa – un ‘Mi dispiace’ all’uomo che, come in trance, cammina in mezzo ai quattro carabinieri in borghese. Fuori è buio. In via del Corso non passa nessuno. La prua dell’Alfetta punta decisa su via In Selci, sede del nucleo operativo dei carabinieri. Condotto in ufficio, l’uomo viene fatto sedere davanti a una scrivania ingombra di incartamenti. ‘Lei è in stato d ‘arresto’. ‘Come?’ ‘C ‘è un ordine d ‘arresto dalla procura di Napoli’. ‘Ma per cosa??’ ‘Non lo sappiamo’. Un collasso, le mani e le gambe che si fanno di ghiaccio. Quindi la ricerca di un avvocato e una telefonata alla figlia Silvia: ‘Ricordati che papà è quello di sempre’. L’angoscia si raggruma in una lunga, incomprensibile attesa. I militari hanno l’ordine di aspettare mezzogiorno per tradurlo nel carcere di Regina Coeli, nessuna fretta deve compromettere la riuscita di una regia studiata da tempo. Il cellulare è stato posteggiato dall’altra parte della strada per meglio consentire a teleoperatori e fotografi di vivisezionare in tutta calma il volto del prigioniero, zoomando sulle manette che stringeranno i suoi polsi. Il tempo sgocciola. All’uomo vengono prese le impronte digitali e scattate le foto di rito: faccia e profilo. La faccia e il profilo di Enzo Tortora”.

 

IL PROCESSO

Enzo Tortora fu tirato dentro il processo alla Nuova Camorra Organizzata da uno come Pasquale Barra che vendicava il gruppo criminale squarciando petti e addendando cuori di galeotti suoi compagni di cella. Non solo. Uccise due impiegati comunali perché tardavano a dargli un certificato, ci ha provato senza successo anche con padre, madre e fidanzata. Accusò Tortora anche un altro criminale, pluriomicida, del calibro di Michelangelo D’Agostino

Il conduttore televisivo subì il carcere per un’agenda trovata nell’abitazione del camorrista Giuseppe Puca. In una pagina c’era un nome che appariva essere, all’inizio, quello di Tortora, con a fianco un numero di telefono. Una perizia calligrafica rilevò che il nome era quello di tale Tortona. Di lì a poco si scoprì che nemmeno il numero telefonico risulterò appartenere al presentatore. “Si stabilirà, per giunta, che l’unico contatto avuto da Tortora con Giovanni Pandico fu a motivo di alcuni centrini provenienti dal carcere in cui era detenuto lo stesso Pandico, centrini che erano stati indirizzati al presentatore perché venissero venduti all’asta del programma Portobello“. La redazione della trasmissione televisiva, per via della gran quantità di materiale che arrivava da tutta Italia, smarrì i centrini e lo stesso Tortora inviò una lettera di scuse a Pandico. A questo seguì un assegno di 800mila lire come rimborso dell’accaduto.

Per questo, il presentatore, scontò 7 mesi di carcere per poi essere trasferito ai domiciliari per gravi problemi di salute. Nel giugno del 1984, a un anno esatto dal suo arresto, Enzo Tortora viene eletto deputato al Parlamento europeo nelle liste del Partito Radicale. Il 9 dicembre 1985 il Parlamento Europeo respinse all’unanimità la richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti dell’eurodeputato Enzo Tortora “per oltraggio a magistrato in udienza. I fatti contestati sono relativi all’udienza del processo alla N.C.O. del 26 aprile 1985, in occasione della quale il pubblico ministero Diego Marmo, rivolgendosi al legale di Tortora, afferma:

“Il suo cliente è diventato deputato con i voti della camorra!”

Tortora grida:

 “È un’indecenza!”

Quindi nella motivazione del Parlamento Europeo si legge:

“Il fatto che un organo della magistratura voglia incriminare un deputato del Parlamento per aver protestato contro un’offesa commessa nei confronti suoi, dei suoi elettori e, in ultima analisi, del Parlamento del quale fa parte, non fa pensare soltanto al «fumus persecutionis»: in questo caso vi è più che un sospetto, vi è la certezza che, all’origine dell’azione penale, si collochi l’intenzione di nuocere all’uomo e all’uomo politico”.

Dopo essersi dimesso da europarlamentare si consegna ai carabinieri rinunciando all’immunità. Il 15 settembre  1986 Tortora è assolto con formula piena dalla Corte d’Appello di Napoli. 

 

MICHELE MORELLO:”I GIUDICI SOFFRONO DI SIMPATIE E ANTIPATIE”

A parlare è il giudice Michele Morello che racconta il suo lavoro investigativo che ha portato all’assoluzione Tortora:

Per capire bene come era andata la faccenda, ricostruimmo il processo in ordine cronologico: partimmo dalla prima dichiarazione fino all’ultima e ci rendemmo conto che queste dichiarazioni arrivavano in maniera un po’ sospetta. In base a ciò che aveva detto quello di prima, si accodava poi la dichiarazione dell’altro, che stava assieme alla caserma di Napoli. Andammo a caccia di altri riscontri in Appello, facemmo circa un centinaio di accertamenti: di alcuni non trovammo riscontri, di altri trovammo addirittura riscontri a favore dell’imputato. Anche i giudici, del resto, soffrono di simpatie e antipatie… E Tortora, in aula, fece di tutto per dimostrarsi antipatico, ricusando i giudici napoletani perché non si fidava di loro e concludendo la sua difesa con una frase pungente: «Io grido: “Sono innocente”. Lo grido da tre anni, lo gridano le carte, lo gridano i fatti che sono emersi da questo dibattimento! Io sono innocente, spero dal profondo del cuore che lo siate anche voi.» 

LE CARRIERE DEI MAGISTRATI

Il giudice Fontana, dopo un’inchiesta del Csm sul suo operato, si è dimesso addirittura sdegnato. I due procuratori che hanno assaltato la vita di un onesto signore hanno preso il volo. Di Pietro è diventato procuratore generale di Salerno. Precedentemente, giusto per non farsi mancare nulla, aveva sostituito Pier Luigi Vigna alla procura nazionale antimafia. Di Persia è passato al Csm ed oggi è in pensione. Con soldi pubblici ovviamente.

Ancora. Il presidente Luigi Sansone che firmò la sentenza d’accusa contro Tortora con stralci di motivazioni del tipo “L’imputato non ha saputo spiegarci il perché di una congiura contro di lui” è passato alla presidenza della sesta sezione penale di Cassazione. Come dire: un giusto riconoscimento. E ancora. Il magistrato con la bava alla bocca, Diego Marmo, quello, come racconta Carlo Verdelli, “con le bretelle rosse sotto la toga e una veemenza tale da fargli scendere la bava all’angolo sinistro della bocca, specie quando dipinge l’imputato come ‘un uomo della notte ben diverso da come appariva a Portobello’ ora in pensione, sempre con soldi pubblici. Quel Marmo che “eruttava che i voti presi da Tortora alle Europee sono anche voti di camorristi”. Quel Marmo che prima della pensione, con soldi dei cittadini, è stato, tra l’altro, procuratore capo di Torre Annunziata.

 

LA RICHIESTA DI TORTORA CHE FINE HA FATTO?

Prima di morire Tortora aveva presentato una richiesta di risarcimento per danni: 100 miliardi di lire la richiesta. Ovviamente il Csm ha archiviato. Niente risarcimento. E perché mai? Tortora è morto. Ovviamente archiviato anche il referendum del 1987 sulla responsabilità civile dei magistrati: vota il 65 per cento, i sì sono l’80 per cento, poi arriva la legge Vassalli e di fatto ne annulla gli effetti.

 

DOVE ERAVAMO RIMASTI?

Nessuno, a parte Melluso, ha chiesto scusa ai familiari di Tortora. In un’intervista all’Espresso del 2010 Melluso dice: “Lui non c’entrava nulla, di nulla, di nulla. L’ho distrutto a malincuore, dicendo che gli passavo pacchetti di droga, ma era l’unica via per salvarmi la pelle. Ora mi inginocchio davanti alle figlie”. Risposta di Gaia, la terzogenita: “Resti pure in piedi”.

Antonio Del Furbo

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