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Si chiama Giuseppe Giorgi e, dopo 25 anni di latitanza, lo Stato lo ha catturato e condotto in carcere.

Giorgi non è una persona qualunque: “u capra”, così soprannominato, è al vertice della cosca ‘ndranghetista Romeo. Il boss era ricercato dal 1994 ed il suo nome era inserito nell’elenco dei 5 latitanti più pericolosi d’Italia. Ora Giorgi dovrà scontare una condanna a 28 anni e 9 mesi per associazione finalizzata al traffico internazionale di sostanze stupefacenti.

La cosa che mi stupisce è che Giorgi vivesse da sempre nella sua casa di San Luca e nessuno, a quanto pare, in tutti questi anni era andato lì ad arrestarlo. Ci sono voluti 25 anni.

Debolezza dello Stato? Ne sono sicuro.

Ma lo Stato ha avuto anche un’altra debolezza, sempre sull’arresto di De Giorgi. Mentre usciva di casa scortato dai Carabinieri, De Giorgi era senza manette e libero di salutare i vicini di casa e gli amici. La scena ‘raccapricciante’ è quella in cui un uomo lo chiama, gli prende la mano e gliela bacia. Checchè ne dica il procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, Federico Cafiero de Raho, il gesto del baciamano è stato un atto ‘violento’ che riafferma la potenza la potenza dell’uomo e dell’associazione mafiosa.

Io, in fondo, non sono stato, diciamo così, sconvolto da riti di un boss che, seppur troppo tardi, si avvia verso il viale del tramonto. In realtà a sconvolgermi è stato il parallelo tra Giuseppe De Giorgi ed Enzo Tortora. Era venerdì 17 giugno 1983 quando Tortora venne svegliato alle 4 del mattino dai Carabinieri di Roma e arrestato con l’accusa di traffico di stupefacenti e associazione di stampo camorristico. Accusebasate sulle dichiarazioni dei pregiudicati Giovanni Pandico, Giovanni Melluso e Pasquale Barra, legato a Raffaele Cutolo. Con loro altri 8 imputati nel processo alla cosiddetta Nuova Camorra Organizzata, tra cui Michelangelo D’Agostino, pluriomicida detto “Killer dei cento giorni”, accusarono Tortora. Tre anni dopo, il 15 settembre 1986, Enzo Tortora fu assolto con formula piena dalla Corte d’appello di Napoli. I camorristi, per i quali iniziò un processo per calunnia avevano dichiarato il falso allo scopo di ottenere una riduzione della loro pena. Altri, invece, non legati all’ambiente carcerario, avevano il fine di trarre pubblicità dalla vicenda.

Eppure quella mattina del 17 giugno del 1983, Enzo Tortora uscì dal comando del Reparto Operativo dei Carabinieri ammanettato e scortato. Le immagini finirono su tutti i media.

Senza vergogna.

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