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Ancora carte, ancora documenti, ancora intrighi, intrecci di potere e omertà intorno alla morte del giovane romano. Ora spuntano nuovi nomi coinvolti nell’insabbiamento della verità.

di Antonio Del Furbo

A verificare le fonti è stata Repubblica che riferisce di una catena di comando che parte dall’Arma dei carabinieri di Roma. Il vertice avrebbe silenziato tutto quelli che avvenne quella notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009 nella caserma Casilina dove Stefano Cucchi fu pestato a sangue.

Ci fu, dunque, una vera e propria operazione di “cover-up e manipolazione di verbali e annotazioni di servizio, di registri interni, e comunicazioni all’autorità giudiziaria”. Tutto avvenne tra il 23 e il 27 ottobre, “con ordini trasmessi per via gerarchica”. L’approvazione del piano esecutivo ci fu il 30 ottobre in una riunione presso gli uffici del generale di brigata e allora comandante provinciale di Roma, Vittorio Tomasone. L’alto ufficiale è oggi generale di corpo d’armata e comandante interregionale dei Carabinieri “Ogaden” di Napoli con competenza su Campania, Puglia, Basilicata, Abruzzo e Molise. Insieme a lui sarebbero coinvolti altri tre gli ufficiali:“l’allora comandante del Gruppo Roma, il colonnello Alessandro Casarsa (oggi comandante del reggimento corazzieri del Quirinale e responsabile della sicurezza del Capo dello Stato) e i due ufficiali che a lui gerarchicamente erano sotto-ordinati quali comandanti di compagnia: il maggiore Luciano Soligo (allora comandante della compagnia Talenti Montesacro) e il maggiore Paolo Unali (allora comandante della Compagnia Casilina). Infine, i marescialli Roberto Mandolini (vice comandante della stazione Appia) e il maresciallo Massimiliano Colombo Labriola (comandante della stazione Tor Sapienza).

La necessità di quella notte in cui avvenne il pestaggio era quella di fornire una diversa narrazione sull’accaduto ma abbastanza verosimile. Il maresciallo dei carabinieri Massimiliano Colombo Labriola, comandante della caserma di Tor Sapienza, ha dimostrato, in una mail dell’epoca, da chi arrivò l’ordine di falsificare le carte da cui doveva scomparire ogni riferimento alle condizioni di Stefano Cucchi. A scoprire dopo nove anni quella mail, sono stati gli agenti della squadra mobile di Roma, per disposizione del pm Giovanni Musarò.

A ordinare la falsificazione delle carte redatte dagli appuntati Francesco Di Sano e Gianluca Colicchio (i due piantoni che presero in carico Stefano la notte dell’arresto) fu il comando di compagnia Talenti-Montesacro, cui la stazione di Tor Sapienza dipendeva gerarchicamente. “È vero, modificai la relazione di servizio – disse Francesco Di Sano, il 17 aprile scorso, durante una delle udienze del processo Cucchi-bis – . Mi chiesero di farlo, perché la prima era troppo dettagliata. Io eseguii l’ordine del comandante Colombo, che lo aveva avuto da un superiore nella scala gerarchica, forse il comandante provinciale (il generale Tomasone, ndr), ma non saprei dirlo con esattezza”.

Colombo, per ordine del Comando di Compagnia, fece trasformare il testo originale in un altro un po’ più articolato.

Originale

“Cucchi Stefano riferisce di avere dolori al costato e tremore dovuto al freddo e di non potere camminare. Viene aiutato a salire le scale”.

Modifica 

“Cucchi Stefano dichiara di essere dolorante alle ossa sia per la temperatura freddo umida che per la rigidità della tavola da letto priva di materasso e cuscino, ove comunque aveva dormito per poco tempo, dolenzia accusata anche per la sua accentuata magrezza”.

Colicchio , sentito anche lui in aula il 17 aprile, ricorda come suo il testo in cui era possibile leggere che Cucchi “dichiarava di avere forti dolori al capo, giramenti di testa, tremore e di soffrire di epilessia”. Ma esclude di aver mai redatto e firmato un’annotazione con stessa data e numero di protocollo in cui si dà atto che Stefano “dichiara di soffrire di epilessia, manifestando uno stato di malessere generale verosimilmente attribuito al suo stato di tossicodipendenza e lamentandosi del freddo e della scomodità della branda in acciaio”

Francesco Di Sano, dopo la morte di Stefano Cucchi, è stato assegnato a svolgere le mansioni di autista dell’allora Comandante provinciale Vittorio Tomasone.

Il 30 ottobre negli uffici del Comando provinciale di Roma viene convocata una riunione dal generale Tomasone, a cui partecipano il Comandante del gruppo Roma Casarsa, i due comandanti di compagnia Unali e Soligo, i marescialli Mandolini (stazione Appia) e Colombo Labriola (Tor Sapienza), che hanno disposto i falsi, nonché i carabinieri coinvolti quella notte, anche se mancano, perché in licenza, Tedesco e Di Sano. Della riunione del 30 non viene redatto uno straccio di verbale. Se ne tacerà l’esistenza alla magistratura che indaga. Un riunione che serve esclusivamente a verificare che “le carte siano a posto” e i nervi dei protagonisti “saldi”. Ai falsi se ne aggiungono altri spiega Repubblica:“vengono manipolati i registri di protocollo con cui si deve correggere e dissimulare come un errore burocratico la sparizione dell’annotazione del 22 ottobre del carabiniere Tedesco in cui riferisce del pestaggio (viene creato un numero di protocollo bis che non insospettisca chi un giorno dovesse andare a cercare quella carta, che è stata intanto sottratta al fascicolo). Si devono correggere le annotazioni di servizio della stazione di Tor Sapienza (abbiamo visto come). Si deve fare in modo che tutti i carabinieri a diverso titolo coinvolti nell’arresto di Stefano la notte del 15 redigano annotazioni di servizio fotocopia che accreditino la menzogna che verrà ripetuta per nove anni.”

 

antonio.delfurbo@zonedombratv.it

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