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Lui, imprenditore calabrese a cui prima la ‘ndrangheta e poi lo Stato hanno tolto tutto.

Lui, è Giuseppe Mattiani che lo Stato schizofrenico lo giudica vittima e carnefice. Mattiani è stato, per lo Stato appunto, vittima dell’organizzazione mafiosa, poi complice e, infine, di nuoco vittima. All’uomo è stato portato via tutto, perché ritenuto vicino alla cosca Gallico di Palmi.

Ben cinque gli anni di processi con tre gradi di giudizio. I giudici hanno stabilito (udite, udite) due volte che i beni dovevano tornare nelle mani del proprietario. Ma a 50 giorni dall’ultima sentenza tutto è ancora fermo. Un patrimonio che ammonta a ben 150 milioni di euro di beni, cifra ridotta a 35 dal perito del tribunale.

Siamo agli inizi degli anni ’90 quando l’hotel Arcobaleno di Palmi, finito nel provvedimento di sequestro, si è trasformato in una società dal capitale miliardario. Tra le ricchezze c’è il Grand Hotel Gianicolo, 48 camere e piscina interna, a Roma. e un ex monastero acquistato in contanti per 11 miliardi di lire nel 2000. Soldi, quest’ultimi, che secondo la Dda di Reggio Calabria erano frutto degli affari dei clan di ‘ndrangheta. 

Il punto è che Mattiani in quegli anni era una vittima dei boss avendo subito un’estorsione dalla cosca Gallico. A dirlo, come riposrta Il Dubbio, è l’inchiesta “Cosa Mia”: “tre esponenti del clan hanno costretto l’imprenditore e il figlio Pasquale a rinunciare alla metà della somma dovuta quale corrispettivo per il ricevimento di un matrimonio organizzato nell’hotel residence Arcobaleno”.

I giudici del primo grado avevano interpretato la vicenda in modo opposto: quel banchetto, secondo l’accusa, sarebbe stato un regalo dei Mattiani agli ‘amici’ del clan Gallico. A supporto della tesi le intercettazioni tra Giuseppe Gallico, il suo difensore ed i familiari. I due, per la Dda, sarebbero stati dunque amici. In realtà, spiega al Dubbio l’avvocato Milicia, “è avvenuto tutto attraverso minacce pesantissime, su disposizione del boss detenuto, che impartiva ordini ai suoi parenti dal carcere». L’estorsione è diventata un atto d’accusa nei confronti della vittima, «tramite un colloquio che avrebbe dovuto essere circondato dalla massima segretezza, ma intercettato perché quell’avvocato era coinvolto in un’altra indagine”.  

Poi arriva l’appello: Giuseppe Mattiani, ormai ottantenne, non è colluso con la cosca. “Le affermazioni del capo cosca Gallico Giuseppe non possono fondare un giudizio di pericolosità qualificata di Mattiani Giuseppe, se solo si considera che quella che viene indicata da Gallico come una offerta spontanea nel colloquio captato è stata riconosciuta quale prodotto di una costrizione operata dallo stesso Gallico”, poi condannato per questo. Indizi a carico di Mattiani che oltre a non essere precisi e concordanti sono anche contraddittori. Quei “favori”, si legge dunque, sono chiaramente inquadrati “nell’attività estorsiva del clan a danno dell’imprenditore.”

A quel punto la Corte revoca la sorveglianza speciale e decreta la restituzione di tutti i beni sequestrati e confiscati in primo grado. Una vittoria durata però solo 12 giorni, il tempo necessario alla procura generale per presentare ricorso in Cassazione.

Il Palazzaccio, a fine maggio, chiude la partita, rigettando il ricorso. Ma quei beni, sottratti ai Mattiani in una notte sola, sono ancora incartati nella burocrazia. 

Ora ci sono fornitori che aspettano davanti alle porte dell’azienda con il loro pacchetto di crediti da riscuotere Poi ci sono i dipendenti licenziati.

Chi paga?

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