25 aprile: la Liberazione è una scelta
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Ogni anno, puntuali come una scadenza che non possiamo ignorare, il 25 aprile torna a riempire piazze, giornali, social e palazzi istituzionali. È il giorno della Festa della Liberazione, il ricordo della fine dell’occupazione nazifascista e della rinascita dell’Italia libera e democratica.

25 aprile: la Liberazione è una scelta. Un appuntamento che, teoricamente, dovrebbe unire un Paese sotto i valori comuni di libertà, giustizia, dignità e coraggio civile.

Eppure, anche quest’anno, il 25 aprile si è trasformato in un campo di battaglia politico e ideologico. Come sempre. Come da troppi anni.

Mentre le immagini dei cortei di Milano e Roma scorrono veloci sui nostri schermi, mentre i politici si sfidano a chi partecipa con più convinzione o a chi riesce a esprimere il concetto più virale, la domanda vera rimane sospesa nell’aria: il 25 aprile è ancora una memoria viva, un impegno personale, o è diventato un rituale vuoto?

La storia, quella vera

Il 25 aprile 1945 non è stato il risultato di un decreto o di un voto parlamentare. È stato il frutto di una scelta, spesso estrema, compiuta da migliaia di donne e uomini che decisero di non voltarsi dall’altra parte. Alcuni salirono in montagna, aderirono alla Resistenza, imbracciarono un fucile. Altri aiutarono i partigiani offrendo rifugi, informazioni, cibo. Molti rischiarono, e persero, tutto.

Il sogno di quei giovani non era una semplice sostituzione di un regime con un altro: era la costruzione di un’Italia nuova. Un Paese che mettesse al centro la libertà di pensiero, la giustizia sociale, la dignità di ogni individuo.

Una visione alta, profonda. Una visione che oggi sembra lontanissima.

La Liberazione ridotta a slogan

Oggi, nel 2025, il 25 aprile viene vissuto più come una festa “contro” qualcuno che “per” qualcosa.

È diventato terreno di scontro tra destra e sinistra, in un balletto di accuse, retoriche e faziosità. C’è chi vorrebbe ridurre il 25 aprile a una ricorrenza superata, «una festa di parte», e chi invece lo trasforma in una passerella di autocelebrazione, dimenticando che la libertà è un bene fragile, che non appartiene a nessun partito.

I politici sfilano nei cortei, spesso senza nemmeno comprendere davvero il peso simbolico del loro gesto. Le istituzioni organizzano cerimonie, discorsi e corone di fiori. Ma il rischio è che tutto questo diventi solo “gestione della memoria”, senza la memoria.

Perché ricordare non significa celebrare. Ricordare significa interrogarsi.

Dove siamo noi?

La vera domanda è un’altra: il 25 aprile è ancora in ognuno di noi?

Siamo capaci di portare avanti, ogni giorno, i valori per cui tanti hanno dato la vita? Siamo disposti a difendere la libertà, anche quando è scomodo, anche quando significa opporsi a un pensiero dominante o a un potere costituito?

Essere liberi non è un diritto automatico. È una conquista quotidiana.

Essere liberi significa scegliere di non piegarsi all’indifferenza, all’ingiustizia, alla sopraffazione. Significa difendere il diritto degli altri a pensare, esprimersi, esistere.

Essere liberi significa essere capaci di dire no.

No all’omologazione. No alla paura. No alla delega passiva di ogni responsabilità.

Non delegare il 25 aprile

Se c’è una lezione che oggi dovremmo imparare, è che il 25 aprile non va affidato ai partiti, ai governi, alle celebrazioni ufficiali.

Il 25 aprile è nostro.

È nelle scelte che facciamo ogni giorno. Nel coraggio di difendere chi è più debole. Nel rifiuto della violenza, della discriminazione, della censura. Nella capacità di immaginare un futuro migliore, anche quando tutto sembra remare contro.

Non è solo una data da ricordare. È una domanda che ci viene posta ogni mattina: tu da che parte stai?

E non rispondere è già una risposta.

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