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Marco D’Onofrio, appena quindicenne, perse la vita mentre andava in bici. Fu investito da un camion a rimorchio. Quel 5 agosto del 2000 ebbe la sfortuna di imboccare la provinciale Lungofino in contrada San Martino a Città Sant’Angelo. Il ragazzo, uscendo con la sua bicicletta e immettendosi dalla rampa di accesso alla strada, fu investito dall’automezzo. Si scoprì, dopo la sua morte, che ad ucciderlo contribuirono anche quei 15 centimentri di dislivello tra la carreggiata e la banchina.

Marco morì a 15 anni investito da un camion: dopo 19 anni nessuna giustizia





Da quel momento per la famiglia di Marco sono stati anni bui, non solo per il dolore della perdita del figlio ma anche per una guerra che continua a combattere contro le istituzioni per ottenere giustizia. Si sono svolti due processi di merito, uno di legittimità e una causa civile. La conclusione della vicenda processuale è ancora lontana.

La sentenza della Cassazione ha stabilito il risarcimento ma i soldi non sono mai arrivati. Secondo la perizia disposta dal gip dell’epoca la strada avrebbe presentato due insidie: l’assenza della corsia di accelerazione e il dislivello di 15 centimetri carreggiata-banchina. Paolo D’Onofrio, padre del ragazzo, a quel punto intentò un nuovo procedimento, questa volta in sede civile, per richiedere il risarcimento danni ai due enti per un milione di euro. Per il Comune di Città Sant’Angelo, però, la responsabilità sarebbe stata del ragazzo perché avrebbe guidato con una sola mano mentre nell’altra avrebbe impugnato una lattina di Coca-Cola. In questa condizione avrebbe azionato solo la leva del freno anteriore perdendo il controllo del mezzo. Una tesi, questa, smontata successivamente dagli stessi periti. Successivamente in risposta alla richiesta fatta dalla famiglia alla Provincia di Pescara, il 4 giugno del 2015 il dirigente di Settore scrisse: “da una ricerca effettuata presso l’archivio di Settore, non risulta, depositata, in atti alcuna polizza RCT relativa all’anno 2000”.  

L’offerta di Generali

“Nella ‘proposta oscena’ ricevuta dal mio legale è evidente il tentativo di estorcere la resa attraverso il ricatto facendo leva sul nostro dolore” spiega D’Onofrio commentando l’offerta della compagnia d’assicurazione. Il tribunale dell’Aquila ha rigettato la domanda di sospensiva del precetto a seguito della sentenza esecutiva del 31/12/2018; pertanto l’avvocato della famiglia ha inviato un invito bonario a pagare il dovuto entro 8 giorni. In caso contrario, si legge nella lettera della difesa della famiglia, verranno attivate le procedure di pignoramento. A questo punto, dunque, Generali propone ad una “composizione transattiva dell’intera vicenda” proponendo “l’importo complessivo di 350mila euro, oltre onorari, a saldo e stralcio di ogni e qualsiasi pretesa vantabile o riconducibile ai fatti di causa e a fronte dell’abbandono del giudizio pendente presso la Corte d’Appello”. 

La sentenza

La sentenza stabilisce che “quanto al presupposto del fumus boni iuris, gli atti di appello, non presentano (…) verosimile idoneità a condurre alla riforma della sentenza impugnata o quanto meno ad una rilevante riduzione quantitativa della condanna da quest’ultima disposta”. “Quanto al presupposto del fumus boni iuris, gli atti di appello, non presentano – all’esito della sommaria delibazione consentita in questa sede e salva ogni diversa valutazione all’esito del pieno dispiegarsi del contraddittorio processuale – verosimile idoneità a condurre alla riforma della sentenza impugnata”. 

Il mandato a resistere

Di fatto i due Enti condannati a rifondere la famiglia si ostinano stranamente a non attivare le polizze assicurative, anzi, ne negano ufficialmente l’esistenza; danno mandato a resistere al fiduciario di Generali spa senza che la compagnia sia parte in causa e senza titolo (manca la polizza depositata in giudizio), però agisce per i propri esclusivi interessi.

“Se Generali spa fa il suo mestiere: ritarda-minaccia-blandisce, l’ente Provincia e il Comune che mestiere esercitano, oltre ad essere complici di una condotta infame?” domanda Paolo D’Onofrio. “Perché hanno esposto gli enti pubblici alla ‘mala gestio’ permettendo l’attivazione della tortura psicologica nei confronti di una famiglia già distrutta per la perdita violenta di un figlio e colpita da stress post-traumatico? Perché ne aggravano volontariamente le patologie esistenti? Quali interessi hanno i due Enti Pubblici? Perché espongono al rischio le contabilità attivando l’indagine della Corte dei Conti seppure sbandierano presunte polizze mai depositate agli atti giudiziari?
Perché favoriscono il lucro di Generali spa calpestando il dolore delle proprie vittime incolpevoli?”

La battaglia della famiglia non finisce qui in quanto sta avviando denuncia all’IVASS, alla Corte dei Conti e alla Procura della Repubblica di indagare sulla vicenda.

Di admin

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