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Non è un film. E non è nemmeno un racconto immaginario. Purtroppo è un pezzo di vita reale, vissuto 35 anni fa in una camerata di un grande edificio dell’Esercito alla Cecchignola da un uomo che, solo oggi, ha il coraggio di raccontare ciò che gli accadde nel silenzio dei suoi superiori.

Antonio Del Furbo

Mi sono occupato varie volte di questo posto “mitico” che per l’opinione pubblica rappresenta, spesso, un luogo di efficienza e di orgoglio nazionale. Ho raccontato, in particolare, le vicende capitate all’ex magistrato Paolo Ferraro che, per un lungo periodo di tempo, ha frequentato quegli ambienti.

Il giudice registrò in audio ciò che accadeva nell’appartamento in cui risiedeva con la compagna appena lui usciva:

Dall’ascolto attento emergevano attività già indicate nella conferenza ma, più in particolare, la possibilità di individuare uso di sostanze, tecniche o procedure verbali a prima vista inquadrabili come volte al condizionamento dei soggetti che li ricevevano. Tutto ciò in un contesto veramente anomalo, fatto di numerose persone di varie età, che sfruttavano una posizione di soppesabile assoggettamento della persona che abitava nell’appartamento oggetto di intercettazione”.

La vicenda Ferraro è contornata di strane vicende accadute in seguito alla sua denuncia: nel 2009 nel terrazzo di casa di Ferraro si verificò uno strano incendio e il giorno dopo lo stesso giudice subì una proposta di TSO. Da quel momento il Magistrato subì pressioni, intimidazioni indirette e inviti ripetuti a tacere. Il Magistrato ci raccontò di aver notato una donna simile a Carmela Rea nei corridoi della Procura di Roma alle 19 di una sera. A questo seguì la sospensione per quattro mesi, voluta dal CSM, “per gravi motivi di salute”. Tra l’altro proprio per quanto riguarda la dichiarazione fatta dal PM su Melania Rea pare trovi riscontro con una dichiarazione rilasciata da un’amica di Melania, Imma Rosa, la quale aveva sostenuto che la donna dopo aver scoperto la relazione extraconiugale del marito con una collega di lavoro, aveva in un primo momento pensato al suicidio e successivamente pensato di denunciare pubblicamente la storia dei due amanti. 

Oggi, invece, torno a occuparmi della Cecchignola per un altro fatto: non meno grave evidentemente di quello accaduto in passato.

Anche questa volta si parla di violenza, di stupro e di sangue. Si parla di un uomo nudo e sanguinante a cui nessuno ha dato aiuto. Un ambiente di depravati che ridevano e sghignazzavano davanti a una persona che, probabilmente, ha rischiato di morire. Una storia triste, fatta di miserabili. Di un miserabile come il capitano A. che gridava in faccia all’uomo stuprato di mentire, mentire, mentire. Una storia fatta di un ricovero in infermeria e poi all’ospedale del Celio.  

A raccontare la storia, la sua storia, è un cinquantenne che con quell’ambiente non ha più nulla a che fare. L.D. ha impiegato trent’anni per elaborare quel trauma e quelle immagini che gli hanno segnato la vita. Lui, classe 1964, oggi assessore di un Comune in provincia di Torino, ha deciso di raccontare la sua personale tragedia. 

Era il 1982 ed L.D. era partito in treno per da Porta Nuova per raggiungere la caserma dove era stato assegnato, il Reggimento Genio Trasmissioni.

“Ero ingenuo, sognatore. Volevo diventare ufficiale e mi ero iscritto al corso volontari Vto, i tecnici operatori, quelli con le mostrine blu. A Roma non conoscevo nessuno, ero timido…”.

Ben presto quei sogni si frantumarono con la realtà di quel luogo in una notte di maggio.

“Quella sera ero appena rientrato dal primo congedo. Prima di addormentarmi nella camerata da sei, sentii che i miei compagni bisbigliavano e ridacchiavano… Non ci badai, non potevo immaginare”.

Erano in tre:“Uno si chiamava Giovanni ed era di Foggia, gli altri due di Bitonto. Miei coetanei, o poco più. Ma insieme si sentivano invincibili. Dovevano essere le due quando mi presero dal letto, mani e piedi… Io cercai di dimenarmi, di scappare in corridoio. Ma loro mi sbatterono la testa sul pavimento e persi una prima volta i sensi. Mi portarono nella lavanderia, sullo stesso piano, e abusarono di me. Poi scapparono, lasciandomi svenuto. Mi svegliai forse due ore dopo, completamente nudo. Il sangue usciva dappertutto. Dal naso, dalla bocca, da dietro. Un maresciallo mi coprì con la sua giacca, credevo di morire…”

Come se non fosse abbastanza, L.D. racconta di essere stato indotto a mentire, per coprire le responsabilità e salvare il buon nome della caserma, quando era ancora imbottito di psicofarmaci.

“Il capitano A. mi venne a trovare in infermeria e mi disse che, se avessi riferito l’accaduto, sarei stato congedato con demerito e non avrei avuto accesso ai concorsi. Io, ragazzino, terrorizzato, non ebbi scelta: accettai di mettere a verbale che al mio arrivo alla stazione Termini tre balordi mi avevano trascinato in un giardinetto e violentato. Ai miei genitori raccontai di essere caduto. Provavo una vergogna che non mi ha mai abbandonato e mi ha rovinato la vita. Solo in tempi recenti sono riuscito a liberarmi dei miei fantasmi”.

Dopo una lunga psicoterapia l’uomo ce l’ha fatta. “Nelle caserme italiane, anche se meno che in passato fatti del genere possono ancora succedere. Voglio esortare le vittime, i ragazzi che oggi hanno l’età che avevo io, a non farsi schiacciare dal silenzio” ha aggiunto l’assessore vittima di questa triste storia.

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