Un blogger assolto per aver detto il vero, un ministro che minimizza, e una giustizia che sembra difendere più se stessa che la sua credibilità pubblica.
Giustizia. C’è un blogger. C’è un magistrato. C’è una società immobiliare. Ma, soprattutto, c’è uno Stato che, ancora una volta, si guarda allo specchio e si dice: “tutto bene”. Anche quando le crepe sono evidenti.
Nel 2021, Antonio Del Furbo pubblica un’inchiesta su zonedombratv.it. Oggetto dell’inchiesta: la partecipazione del magistrato Francesco Turco, in servizio presso il Tribunale di Chieti, in una società immobiliare denominata “L&F Immobiliare S.r.l.”, con sede a Francavilla al Mare, in provincia di Chieti. La società aveva acquistato, in un’operazione registrata, due locali commerciali a Roma da una società con sede in Lussemburgo. Le fonti erano documenti ufficiali: bilanci, visure camerali, atti notarili.
Il punto sollevato era semplice quanto dirompente: può un magistrato, titolare del 50% di una società immobiliare, restare credibile agli occhi dei cittadini che devono essere giudicati da lui, anche se non figura come amministratore? E ancora: la legge vieta ai magistrati di “esercitare industrie e commerci”. La sola titolarità di quote è davvero sempre compatibile con il ruolo giudiziario?
Per aver posto queste domande pubblicamente, Del Furbo viene querelato. L’accusa è di diffamazione aggravata a mezzo stampa. Ma il 19 aprile 2024, il Tribunale di Campobasso lo assolve con la formula “perché il fatto non sussiste”.
La motivazione è illuminante. Il giudice scrive che “incontestata è la qualifica di socio – peraltro di maggioranza – della L&F immobiliare S.r.l. da parte del magistrato Turco”. Inoltre, l’operazione immobiliare descritta è avvenuta realmente e i dati riportati nell’inchiesta sono stati ricavati da fonti pubbliche e verificate. Il Tribunale evidenzia anche un altro punto chiave: “la circostanza che il Turco detenga il 50% del capitale sociale […] avrebbe dovuto spingere gli organi inquirenti a raccogliere ulteriori elementi a riprova della assoluta estraneità del magistrato dalla gestione di fatto della società”. Ma nessuno lo ha fatto.
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Nel frattempo, in sede parlamentare, la senatrice Gabriella Di Girolamo presenta un’interrogazione al Ministro della Giustizia Carlo Nordio. L’obiettivo: chiedere se questa partecipazione societaria sia compatibile con la funzione di magistrato e se siano stati disposti accertamenti adeguati.
La risposta ministeriale arriva il 29 aprile 2025. Nessuna indagine ispettiva. Nessuna verifica terza. Solo una relazione chiesta al presidente del Tribunale di Chieti, collega diretto del magistrato interessato. Il risultato? “Non sussiste alcuna attività gestoria” e dunque “nessuna incompatibilità disciplinare”. La frase che più colpisce, però, è questa:
“Alla luce dei chiarimenti forniti non sembra potersi ritenere configurabile alcun illecito disciplinare in capo al magistrato cui l’atto parlamentare si riferisce, facendo difetto per l’appunto lo svolgimento di vera e propria attività gestoria da parte del medesimo, nonché elementi concreti da cui poter desumere la compromissione dell’immagine del magistrato e della sua indipendenza.”
“Non sembra potersi ritenere”.
Una formula incerta, ambigua, come se lo stesso Ministero dubitasse dell’adeguatezza delle proprie verifiche. Ma allora: chi avrebbe dovuto cercare quegli “elementi concreti” se non lo stesso Ministero, magari attraverso un’indagine ispettiva autonoma e non chiedendo lumi a un collega del magistrato coinvolto?
Il contrasto tra la visione del giudice di Campobasso e quella del Ministro Nordio è evidente. Il primo afferma con chiarezza che il divieto per i magistrati di esercitare attività imprenditoriale serve a garantire indipendenza e imparzialità, due prerogative costituzionalmente protette. Il secondo si rifugia in una lettura formalistica: se non c’è gestione diretta, allora non c’è problema.
Ma è proprio questo il nodo della questione: si può parlare di giustizia credibile se ci si limita a ciò che è “formalmente” in regola, senza preoccuparsi della percezione pubblica, della trasparenza, della necessità di evitare qualsiasi dubbio sull’imparzialità di chi giudica?
E ancora: è normale che la società a cui partecipa il magistrato sia dichiarata dal Ministero come “non operante in Abruzzo”, quando la sua sede legale è proprio in provincia di Chieti?
A queste domande lo Stato non ha ancora dato risposte. Ma una risposta l’ha data la giustizia, quella fatta nelle aule dei tribunali, dove un giornalista è stato assolto perché ha raccontato fatti veri, documentati e di interesse pubblico.
Ciò che manca è una vera volontà istituzionale di indagare fino in fondo. Di superare la logica dell’autotutela. Di garantire, soprattutto nei territori più fragili, una giustizia non solo imparziale, ma anche visibilmente indipendente.
Perché legalità non significa legittimità. E perché la fiducia, una volta persa, non si recupera più con le circolari ministeriali.