Il caso Almasri e i crimini nei lager libici
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Le lunghe e complesse indagini, durate ben tredici anni, sui crimini e gli abusi perpetrati nei campi di detenzione libici rischiano di essere vanificate.

Il caso Almasri e i crimini nei lager libici. Questa grave eventualità si è concretizzata a seguito del rimpatrio di Njeem Osama Almasri, comandante della polizia giudiziaria di Tripoli, riportato in Libia su un volo gestito dai Servizi segreti italiani. L’operazione è avvenuta martedì sera, subito dopo la sua scarcerazione dalla prigione “Le Vallette” di Torino.

Secondo il regolamento della Corte Penale Internazionale (CPI), per procedere con un processo è necessario che almeno uno degli imputati si trovi in un Paese che riconosce l’autorà della Corte stessa. La Libia, tuttavia, non rientra tra questi Stati. Almasri era l’unico tra i sei indagati colpiti da un mandato di cattura internazionale ad essere stato arrestato. Qualora l’Italia lo avesse trasferito a L’Aia, il processo per le violenze sistematiche nei lager libici avrebbe potuto finalmente iniziare. Ora, invece, tutto rischia di rimanere congelato, con una giustizia che sembra sempre più lontana.

Le accuse e le carte desecretate

Il mandato di cattura internazionale emesso contro Almasri è stato desecretato dalla CPI venerdì scorso, pochi giorni dopo la sua scarcerazione avvenuta per un presunto cavillo procedurale. Le accuse contenute nel documento sono gravissime e circostanziate: nel carcere di Mitiga, diretto da Almasri dal febbraio 2015, si sono verificati crimini efferati. Si parla di almeno 34 detenuti uccisi, 22 episodi di violenza sessuale che hanno coinvolto anche un bambino di soli cinque anni, e altre atrocità commesse dalle guardie carcerarie sotto il suo comando.

Secondo il mandato, Njeem Almasri non si sarebbe limitato a tollerare queste violenze, ma avrebbe partecipato attivamente. I giudici della Corte affermano che il comandante ha “personalmente picchiato, torturato, sparato e aggredito sessualmente detenuti”, oltre ad aver dato ordini alle guardie di perpetrare ulteriori abusi. Le vittime erano spesso imprigionate per motivi religiosi, sospetti di immoralità o per il loro orientamento sessuale. Molti dei prigionieri provenivano dall’esercito di Khalifa Haftar, figura chiave della Cirenaica. Le torture comprendevano pestaggi con bastoni, percosse, colpi di arma da fuoco, e la detenzione in condizioni disumane, come il confinamento in cubi di metallo.

Dati inquietanti emergono dal materiale raccolto dagli investigatori: almeno sei detenuti sono stati stuprati, 12 sono morti a causa di torture o maltrattamenti, 16 per mancanza di cure mediche adeguate, e due sono deceduti dopo essere stati costretti a dormire all’aperto in condizioni climatiche proibitive. Inoltre, almeno 36 persone, tra cui un bambino di nove anni, sono state ridotte in schiavitù.

Il ruolo diretto di Almasri

Le testimonianze raccolte indicano che Almasri era presente in molte occasioni durante i pestaggi e gli omicidi. Avrebbe addirittura ordinato alle guardie di colpire i detenuti in modo tale da non lasciare segni visibili delle percosse. Inoltre, avrebbe punito chiunque tra il personale carcerario tentasse di aiutare i prigionieri a contattare le loro famiglie. La CPI ritiene che Almasri fosse pienamente consapevole delle condizioni disumane della prigione di Mitiga e che le tollerasse volutamente per infliggere sofferenze ai detenuti.

I giudici sostengono che, anche in sua assenza, il comandante abbia autorizzato implicitamente atti criminali. “Era consapevole degli abusi e intendeva che accadessero”, si legge nei documenti. Nonostante queste accuse gravissime, il generale è stato accolto in patria con una festa pubblica, inclusi fuochi d’artificio, dopo il suo rientro a Tripoli su un volo organizzato dagli apparati italiani.

Un cavillo procedurale che cambia tutto

La scarcerazione di Almasri è stata motivata da un presunto “errore procedurale” individuato dai giudici della Corte d’Appello di Roma. Secondo quanto riportato, il ministro della Giustizia Carlo Nordio non sarebbe stato informato dell’arresto in tempo utile, come previsto dal protocollo. Questa lacuna ha portato alla decisione di liberare il comandante libico e di rimpatriarlo rapidamente. Tuttavia, emergono dettagli che suggeriscono una gestione della vicenda altamente controversa.

Un Falcon 900 dei Servizi segreti italiani era già pronto all’aeroporto di Torino nella tarda mattinata di martedì, ben prima che la scarcerazione fosse ufficializzata. Questo elemento fa pensare che la decisione di rimpatriare Almasri fosse stata presa a livelli molto alti, indipendentemente dall’esito delle procedure giudiziarie.

La reazione delle opposizioni

L’intera vicenda ha scatenato un acceso dibattito politico. Le opposizioni hanno espresso indignazione per la gestione del caso, accusando il governo di aver ignorato le richieste della CPI e di aver rimandato impunemente in Libia un uomo accusato di crimini contro l’umanità. La segretaria del Partito Democratico, Elly Schlein, ha chiesto spiegazioni immediate, sottolineando l’incoerenza di un esecutivo che si era impegnato a contrastare il traffico di esseri umani ma ha poi agevolato il ritorno di un torturatore nel suo Paese d’origine.

Anche Matteo Renzi ha definito la vicenda “gravissima”, promettendo di chiedere conto al ministro Nordio. Altri esponenti politici, come Riccardo Magi e Angelo Bonelli, hanno parlato di una “vergogna nazionale” e richiesto chiarimenti urgenti in Parlamento.

Le tappe della vicenda

La cronologia degli eventi è cruciale per comprendere la dinamica di quanto accaduto. Il 2 ottobre, il procuratore presso la CPI aveva chiesto l’arresto di Almasri, richiesta accolta il 18 gennaio con l’emissione del mandato di cattura. Sabato 18, Almasri si trovava a Torino per assistere a una partita di calcio tra Juventus e Milan. La Digos, agendo su segnalazione dell’Interpol, lo aveva arrestato e trasferito in carcere. Tuttavia, a Roma, il ministero della Giustizia non era stato informato tempestivamente dell’operazione.

Questo ritardo ha consentito alla difesa di Almasri di appellarsi a un vizio procedurale, ottenendo la sua scarcerazione. Martedì mattina, la Corte d’Appello di Roma ha ordinato il rilascio del generale, mentre il ministro Nordio emetteva una nota ambigua dichiarando di star ancora valutando il caso.

Le critiche della CPI

La Corte Penale Internazionale ha reagito con fermezza, criticando apertamente il governo italiano per la mancata collaborazione. I giudici de L’Aia hanno ricordato l’obbligo di tutti gli Stati di cooperare con la Corte nelle indagini e nei procedimenti penali. La scarcerazione e il rimpatrio di Almasri rappresentano, secondo loro, un grave ostacolo alla giustizia per le vittime delle atrocità commesse nei lager libici.

Il caso di Njeem Osama Almasri getta una lunga ombra sull’impegno dell’Italia nella lotta contro i crimini contro l’umanità. La vicenda solleva interrogativi sull’indipendenza del sistema giudiziario, sulle priorità politiche del governo e sul rispetto degli obblighi internazionali. Resta ora da vedere se il Parlamento e le autorità competenti saranno in grado di fornire risposte adeguate e garantire che simili episodi non si ripetano in futuro.

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