Ci sono voluti sette lunghi anni per mettere per iscritto, in un’aula di tribunale, ciò che molti nell’ambiente romano sapevano da tempo.
Il caso Diabolik: verità e potere criminale dietro l’omicidio di Fabrizio Piscitelli. La morte di Fabrizio Piscitelli, alias “Diabolik”, non fu un’esecuzione casuale o il risultato di un regolamento di conti occasionale. La sua uccisione, avvenuta il 7 agosto 2019 al Parco degli Acquedotti, è stata pianificata con cura nell’ambito di una guerra sotterranea tra gruppi criminali che si contendevano il monopolio del narcotraffico a Roma. A raccontarlo non è più solo la voce della strada, ma le motivazioni della sentenza con cui la Corte d’Assise di Roma ha condannato all’ergastolo Raul Esteban Calderon, indicato come l’esecutore materiale del delitto.
Nelle 257 pagine che motivano la sentenza di primo grado, i giudici romani disegnano una mappa precisa degli interessi, delle alleanze e delle fratture che hanno portato all’omicidio. Una rete di affari illeciti, ambizioni personali, rivalità antiche e nuove che hanno infine segnato la fine violenta di uno dei personaggi più controversi della criminalità romana contemporanea.
Un omicidio che rompe gli equilibri
Secondo i giudici, Fabrizio Piscitelli era diventato un ostacolo per troppi. Aveva imposto una tangente da 300.000 euro ad Alessandro Capriotti, figura a sua volta inserita nel tessuto criminale romano, ma soprattutto era divenuto un protagonista scomodo all’interno del traffico internazionale di stupefacenti. A farlo finire nel mirino non è stata solo la sua esuberanza, ma la sua leadership in crescita e il suo ruolo da mediatore tra bande rivali, che lo rendeva pericoloso per chi, da anni, aveva il controllo del mercato della droga.
Leandro Bennato e Giuseppe Molisso, legati proprio a Capriotti, sono i nomi che compaiono al centro del presunto sodalizio criminale in competizione con il gruppo di Diabolik. Ma non è tutto. I giudici citano anche Michele Senese, detto ‘O Pazzo, boss storico della malavita napoletana trapiantata a Roma, che da anni percepiva percentuali sul narcotraffico, anche stando dietro le sbarre. Piscitelli, sempre più autonomo e incline ad agire fuori dagli schemi, avrebbe rotto quei delicati equilibri che reggevano il potere criminale nella Capitale. Equilibri che, fino a quel momento, erano rimasti stabili proprio grazie a una spartizione silenziosa dei proventi e a una gerarchia riconosciuta da tutti.
Una figura carismatica e ambigua
Fabrizio Piscitelli non era un semplice delinquente. Era un uomo dalla personalità forte, un simbolo per alcuni, un pericolo per altri. Conosciuto nel mondo del tifo come leader carismatico degli Irriducibili, la storica frangia ultras della Lazio, era soprannominato “Diabolik” in omaggio al celebre antieroe dei fumetti. Negli anni aveva saputo costruirsi un personaggio pubblico controverso, muovendosi tra stadio, politica e criminalità.
I rapporti con l’estrema destra extraparlamentare — in particolare con l’ambiente di Forza Nuova — erano noti e ben documentati. Allo stesso tempo, Piscitelli aveva intessuto legami profondi con alcune delle più potenti famiglie mafiose attive su Roma, in particolare quella dei Senese. Ma a renderlo davvero pericoloso era la sua capacità di mediazione, la sua influenza tra le varie batterie e la sua crescente autonomia. In particolare, era diventato un punto di riferimento per il gruppo degli albanesi di Ponte Milvio, con i quali aveva costruito una vera e propria batteria criminale.
L’assassinio: un’operazione chirurgica
La sera del 7 agosto 2019, alle 18:46, una telefonata anonima raggiunge il 112: “Hanno ucciso Diabolik”. I soccorritori arrivano troppo tardi. Piscitelli è stato freddato con un solo colpo alla nuca, mentre era seduto su una panchina al Parco degli Acquedotti. Nessun urlo, nessuna colluttazione: un’esecuzione perfetta, quasi militare. Le immagini delle telecamere, le chat criptate, gli esami balistici e biometrici, e infine le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, hanno portato gli inquirenti fino a Raul Esteban Calderon, cittadino argentino, ritenuto un killer professionista al servizio di Bennato e Molisso.
Calderon, secondo l’accusa, era già da tempo inserito nei ranghi dell’organizzazione e agiva come sicario su commissione. Le sue azioni, secondo quanto emerge dalle indagini, non erano isolate ma si inserivano in una strategia più ampia. Non un folle, non un improvvisato. Un professionista della morte.
Il doppio gioco del boss albanese
Tra gli elementi più interessanti emersi nel processo, vi è il ruolo del boss albanese Elvis Demce. Figura centrale negli equilibri criminali della Roma del narcotraffico, Demce avrebbe giocato su più tavoli, fingendo di collaborare con Molisso mentre in realtà covava desiderio di vendetta per la morte di Piscitelli. Un doppio gioco che conferma quanto fluido e instabile fosse lo scenario criminale romano dopo l’omicidio di Diabolik.
Demce, raccontano i giudici, cercava affari con il clan avversario, ma allo stesso tempo meditava vendetta. Il delitto aveva infatti scatenato una reazione a catena, con attentati e minacce che avrebbero potuto sfociare in una nuova stagione di sangue.
Un processo, molte ombre
La condanna all’ergastolo di Raul Calderon è solo il primo tassello. Se il procedimento contro l’esecutore materiale si è chiuso con una condanna, il capitolo relativo ai mandanti è ancora aperto. Il processo, infatti, ha appena preso avvio. La difesa di Calderon, affidata all’avvocata Eleonora Nicla Moiraghi, ha già annunciato ricorso in Appello. In primo grado è riuscita a ottenere l’esclusione dell’aggravante del metodo mafioso, un risultato tutt’altro che scontato in un procedimento così delicato.
Secondo la difesa, infatti, non ci sarebbero prove sufficienti per dimostrare che l’assassinio di Diabolik sia stato ordinato da un’organizzazione mafiosa nel senso previsto dal codice penale. Ma per i giudici della Corte d’Assise il contesto è chiaro: “La vittima era un soggetto scomodo per una precisa organizzazione criminale, in contrasto con le dinamiche e gli interessi di chi da anni controllava il traffico di stupefacenti nella Capitale”.
Una Roma divisa tra bande
Il ritratto che emerge dal processo è quello di una città profondamente segnata dal crimine organizzato, dove la spartizione del potere non avviene più solo tra clan tradizionali, ma anche tra nuove realtà fluide, trasversali, pronte a stringere alleanze temporanee e a tradirle appena conviene. I clan romani, i napoletani, le batterie albanesi, i gruppi sudamericani: tutti cercano spazio, tutti cercano profitto. E tutti sanno che chi rompe le regole rischia la vita.
Piscitelli aveva rotto le regole. E per questo — secondo la sentenza — è stato ucciso. Aveva sfidato l’autorità riconosciuta, si era allargato troppo, aveva pestato i piedi sbagliati. Troppi nemici, troppa visibilità. Un profilo diventato ingombrante per chi preferisce l’ombra alla ribalta.
Verso la verità?
Le motivazioni della sentenza aprono ora nuovi scenari giudiziari. L’inchiesta sui mandanti è destinata a sollevare ulteriori dettagli, a svelare altri intrecci tra criminalità, politica e zone grigie del potere romano. Il processo, infatti, non riguarda solo un omicidio. Riguarda la gestione del potere sotterraneo in una delle città più importanti d’Europa. Riguarda una capitale che, sotto la superficie, è ancora ostaggio di logiche violente, di silenzi comprati, di equilibri instabili che spesso vengono ristabiliti con il piombo.
Nel frattempo, il nome di Diabolik continua a evocare timore, rispetto o odio, a seconda di chi lo pronuncia. Per qualcuno resta un mito del tifo, per altri un simbolo della criminalità che ha avvelenato Roma. Ma per tutti, la sua fine segna uno spartiacque: la fine di una stagione e l’inizio di un’altra. Più pericolosa. Più imprevedibile.
Segui i nostri approfondimenti: Zone d’Ombra Tv