Il tradimento di Leoluca Orlando nei confronti di Giovanni Falcone. Ecco chi era l'uomo della Primavera palermitana
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Poche settimane prima dall’attentato a Giovanni Falcone e agli uomini della sua scorta, in tv e sui giornali un rampollo della nuova stagione palermitana imperversava sulla stampa. 

Leoluca Orlando, al sesto mandato di sindaco di Palermo, evidentemente non nutriva una grossa simpatia per Falcone visto che non perdeva occasione nell’attaccarlo. “Orlando era un amico” raccontava Maria Falcone, sorella di Giovanni. “Erano stati amici, avevano pure fatto un viaggio insieme in Russia… Orlando viene ricordato soprattutto per quel periodo che in molti chiamarono Primavera di Palermo, ma anche per lo scontro durissimo che ebbe con Giovanni e che fu un duro colpo, distruttivo per l’antimafia in generale”.

Orlando, tuonando contro gli andreottiani, era diventato sindaco nel 1985 e aveva inaugurato la Primavera di Palermo che auspicava un gioco di sponda tra procura e istituzioni. Dopo che il 16 dicembre 1987 la Corte d’assise di Palermo aveva comminato 19 ergastoli nel cosiddetto maxiprocesso, qualcosa cambiò. Tutti si attendevano che il nuovo consigliere istruttore di Palermo dovesse essere lui, Falcone: ma il Csm, il 19 gennaio 1988, scelse Antonino Meli seguendo il criterio dell’anzianità.

E a Falcone cominciarono a voltare le spalle in tanti. Con Orlando, tuttavia, vi fu un episodio scatenante: “Orlando ce l’aveva con Falcone”, ha ricordato l’ex ministro Claudio Martelli “perché aveva riarrestato l’ex sindaco Vito Ciancimino con l’accusa di essere tornato a fare affari e appalti a Palermo con sindaco Leoluca Orlando, questo l’ha raccontato Falcone al Csm per filo e per segno”. Fu lo stesso Falcone, in conferenza stampa, a spiegare che Ciancimino era accusato di essere il manovratore di alcuni appalti col Comune sino al 1988.

Quando Falcone accettò l’invito di dirigere gli Affari penali al ministero della Giustizia le accuse non poterono che aumentare.

Fu durante una puntata di Samarcanda del maggio 1990, in particolare, che Orlando scagliò le sue accuse peggiori: Falcone – disse – ha una serie di documenti sui delitti eccellenti ma li tiene chiusi nei cassetti. Per l’esattezza il riferimento era a otto scatole lasciate da Rocco Chinnici e a un armadio pieno di carte. Le trasmissioni condotte da Michele Santoro erano dedicate a una serie di omicidi di mafia, e “io sono convinto”, tuonò Orlando, “che dentro i cassetti del Palazzo di Giustizia ce n’è abbastanza per fare chiarezza su quei delitti”. L’accusa verrà ripetuta anche da molti uomini del movimento di Orlando, tra i quali Carmine Mancuso e Alfredo Galasso. Di vicinanza andreottiana – oltre a Falcone – figurava anche il suo collega Roberto Scarpinato, ovvero colui che pochi anni dopo istruirà proprio il processo per mafia contro Andreotti.

“Il sospetto è l’anticamera della verità”

Orlando coniò uno slogan: “Il sospetto è l’anticamera della verità”. Falcone rispose a mezzo stampa: “È un modo di far politica che noi rifiutiamo… Se Orlando sa qualcosa faccia i nomi e i cognomi, citi i fatti, si assuma la responsabilità di quel che ha detto, altrimenti taccia. Non è vero che le inchieste sono a un punto morto. È vero il contrario: ci sono stati sviluppi corposi, con imputati e accertamenti”.

Ma Orlando proseguì nei giorni a seguire con le accuse: “Diede inizio scriverà Maria – a una vera e propria campagna denigratoria contro mio fratello, sfruttando le proprie risorse per lanciare accuse attraverso i media”. Così aveva già fatto nell’estate del 1989, quando il pentito Giuseppe Pellegriti accusò il democristiano Salvo Lima di essere il mandante di una serie di delitti palermitani: Falcone fiutò subito la calunnia ma Orlando si convinse che il giudice volesse proteggere Lima e Andreotti. “Seguirono mesi di lunghe dichiarazioni e illazioni da parte di Orlando, che voleva diventare l’unico paladino antimafia”, ha scritto ancora Maria Falcone.

Gerardo Chiaromonte, defunto presidente della Commissione Antimafia, disse che: “I seguaci di Orlando sostennero che era stato lo stesso Falcone a organizzare il tutto per farsi pubblicità”.

Orlando tornò alla carica il 14 agosto 1991, quando su l‘Unità disse: “Sono migliaia e migliaia i nomi, gli episodi a conferma dei rapporti tra mafia e politica. Ma quella verità non entra neppure nei dibattimenti, viene sistematicamente stralciata, depositata, e neppure rischia di diventare verità processuale… Si è fatto veramente tutto, da parte di tutti, per individuare responsabilità di politici come Lima e Gunnella, ma anche meno noti come Drago, il capo degli andreottiani di Catania, Pietro Pizzo, socialista e senatore di Marsala, o Turi Lombardo? E quante inchieste si sono fermate non appena sono emersi i nomi di Andreotti, Martelli e De Michelis?”. Orlando citò espressamente, tra i presunti insabbiatori, “la Procura di Palermo” e implicitamente Falcone. Per il resto, tutte le accuse risulteranno lanciate a casaccio. Poco tempo dopo, il 26 settembre 1991, al Maurizio Costanzo Show, ad attaccare Falcone fu il sodale di Orlando, Alfredo Galasso.

Galasso, Carmine Mancuso e Leoluca Orlando, l’11 settembre precedente, avevano presentato un esposto al Csm che sarà il colpo finale: si chiedevano spiegazioni sull’insabbiamento delle indagini sui delitti Reina, Mattarella, La Torre, Insalaco e Bonsignore e anche sui rapporti tra Salvo Lima e Stefano Bontate e sulla loggia massonica Diaz e poi appunto sulle famose carte nei cassetti. Dopo circa un mese, il 15 ottobre, Falcone dovette vergognosamente discolparsi davanti al Csm.

“Non si può andare avanti in questa maniera, è un linciaggio morale continuo… Non si può investire della cultura del sospetto tutto e tutti. La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità, la cultura del sospetto è l’anticamera del komeinismo” disse Falcone.

Racconterà Francesco Cossiga nel 2008, in un’intervista al Corriere della Sera: “Quel giorno lui uscì dal Csm e venne da me piangendo. Voleva andar via”.

Orlando il 23 maggio 1992 da ex amico e traditore si riaffaccerà sul proscenio come se nulla fosse stato.

Il 25 gennaio 1993, intervenendo telefonicamente a Mixer su Raidue, Maria Falcone disse a Leoluca Orlando: “Hai infangato il nome, la dignità e l’onorabilità di un giudice che ha sempre dato prova di essere integerrimo e strenuo difensore dello Stato. Hai approfittato di determinati limiti dei procedimenti giudiziari, per fare, come diceva Giovanni, politica attraverso il sistema giudiziario”.

Il 18 luglio 2008, intervistato da KlausCondicio, Orlando lsi difende: “C’è stata una difficoltà di comprensione con Giovanni Falcone. Ma ridirei esattamente le stesse cose… Ho avuto insulti ai quali non ho mai replicato, perché credo che sia anche questa una forma di rispetto per le battaglie che io ho fatto… (pausa, poi aggiunge) … e che Giovanni Falcone meglio di me ha fatto, perché trascinare una storia straordinaria come quella di Falcone dentro una polemica politica, francamente, è cosa di basso conio”.

A 29 anni da quell’attentato, Leoluca Orlando, in qualità di sindaco di Palermo, conferisce la cittadinanza onoraria di Palermo alla polizia di Stato. Corsi e ricorsi storici.

di Antonio Del Furbo

antoniodelfurbo@zonedombratv.it

Un pensiero su “Il tradimento di Leoluca Orlando nei confronti di Giovanni Falcone. Ecco chi era l’uomo della Primavera palermitana”
  1. Orlando un personaggio indegno che alberga nel panorama politico panormita da troppo tempo. Coltiva la menzogna, diffonde i sospetti infanga coloro che lottano contro il potere massomafioso che divora la legalità.

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