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Ormai ci accompagna dappertutto: a letto, a lavoro e persino in bagno. Lo smartphone, con le migliaia di applicazioni, notifiche e attività da tenere sempre a portata di mano ci sta rubando, ormai da tempo, la nostra vita.

Certezze che, probabilmente, hanno spinto Catherine Price, giornalista del New York Times e uno dei più importanti guru del nuovo movimento dei digitali infelici, a scrivere “Come disintossicarsi dal tuo cellulare” (Mondadori), diventato un bestseller e la bibbia dei tanti che vogliono staccare la spina per riappropriarsi della propria vita.




In un anno il libro della Price è andato a ruba in 26 Paesi e ha portato alla fondazione di un movimento, “Screen Life Balance”, per aiutare i troppo connessi a liberarsi dell’ossessione telefonino, come fosse un partner di una relazione disfunzionale.

Negli ultimi anni le ricerche gobali col termine digital detox su Google sono in crescita ininterrotta. E il diritto alla disconnessione durante il proprio tempo libero è una rivendicazione presente sempre più spesso nei contratti di lavoro collettivi, tra gli ultimi quello dei bancari. Stando al rapporto “Stress negli Usa” dell’Associazione americana psicologi, quasi due terzi degli americani adulti concordano sul fatto che sottoporsi a un digital detox gioverebbe alla loro salute mentale. Eppure solo un quarto di queste persone è riuscita a farlo davvero.  

I produttori di questi dispositivi e delle app sono perfettamente consapevoli dei loro effetti sul cervello e imbottiscono i loro prodotti di caratteristiche capaci di attivarli, con l’esplicito obiettivo di indurci a dedicare loro la maggior quantità possibile di tempo e attenzione. Per le aziende che gestiscono le piattaforme digitali ha un valore economico enorme.  

Il primo nemico del digital detox è la Fomo (Fear of missing out) ovvero la paura di essere tagliati fuori dal flusso di comunicazione. “Se ci si di- sconnette si innescano processi mentali del tipo ‘chissà chi mi ha scritto'”, spiega il sociologo Marco Fasoli, ricercatore all’Università di Milano e autore del libro “Il benessere digitale” (Il Mulino). All’inizio, “la soluzione per vincere queste ansie è avvisare i nostri contatti, impostando un messaggio ‘out of office’ sull’e-mail o uno status su WhatsApp o sugli altri social, avvertendo che per un po’ non saremo on line”. Il secondo passo è mettere lo smartphone lontano dalla vista. La sola presenza sul tavolo abbassa la qualità della conversazione tra due persone. Il cellulare è ormai un essere animato, uccide la capacità di attenzione.

La paura di perdere qualcosa di relativamente fondamentale tiene la rete cerebrale sempre connessa.

E la rincorsa al like fa perdere il contatto con la realtà. Poi però sembra importarci sempre meno dell’impressione che facciamo dal vivo. Il problema ha un nome: phubbing, abbreviazione di phone snubbing, ovvero la tendenza a snobbare le persone presenti, a cena, a una riunione, a una festa, per concentrarsi sul telefonino. Dobbiamo riassaporare il vero gusto del vivere, sostenere il faccia a faccia. Di solito il nostro sguardo va distrattamente dall’interlocutore allo schermo del nostro gioiellino.

“Cominciate dal mattino: compratevi una sveglia, il compito di interrompere il riposo non affidatelo al cellulare. Prima di accenderlo fate colazione, preparatevi, ottimizzate i tempi invece di perderli per leggere i messaggi ricevuti. Nel tragitto da casa al lavoro guardatevi intorno, non entrate nel vortice degli zombi che si aggirano per la città senza guardar nulla, attraversando piazze e incroci a testa bassa rischiando di essere investiti dalle auto. Durante il giorno usatelo solo per le chiamate, spegnetelo spesso e sempre quando siete in compagnia, nel week end o in vacanza. Cancellate le app di giochi, shopping e social; se non riuscite, eliminate gli allarmi delle notifiche. Ogni ding o vibrazione suscita reazioni nel cervello che ci allontanano da ciò che stiamo facendo.”

Di admin

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