Un’affermazione netta, senza sconti, pronunciata in una delle trasmissioni più pacate del panorama televisivo italiano: “Lo Stato ha trattato con la mafia”.
“Lo Stato ha trattato con la mafia”: il grido di verità di Ardita e Di Matteo. A pronunciarla non è un ex politico o un opinionista, ma il procuratore aggiunto di Catania Sebastiano Ardita, ospite di Gigi Marzullo nel programma “Sottovoce” su Rai 1. Un intervento che scuote, perché in quelle parole si concentra tutta la drammaticità di una stagione di sangue e compromessi, che ha segnato il cuore dello Stato italiano.
La trattativa Stato-mafia, più volte smentita in sede giudiziaria nei suoi profili penali, continua però a esistere come fatto storico. Ed è proprio su questo punto che Ardita non fa sconti: “Lo Stato ha trattato con la mafia – ribadisce – perché questo è emerso da una motivazione storicamente accertata, anche dai protagonisti, anche dagli imputati dei processi, al di là di quelle che poi sono le valutazioni giuridiche e le sentenze finali”.
Una verità pesante, che non si limita al passato. Per Ardita, infatti, la Repubblica italiana ha una storia “complessa, che va conosciuta tutta”. E conoscere, per lui, significa anche restituire ai cittadini il diritto di formarsi una propria idea sulla base dei fatti e non delle omissioni: “Se non conosciamo la verità, saremo un popolo con una democrazia minore”.
L’eredità delle stragi
A dare forza a queste parole è l’intervento del sostituto procuratore nazionale antimafia Nino Di Matteo, chiamato in causa dallo stesso Ardita. La loro è una storia parallela, una vocazione condivisa fin dall’ingresso in magistratura: “Siamo entrati con lo stesso concorso nel periodo delle stragi – ha ricordato Di Matteo – abbiamo scelto due procure siciliane, siamo magistrati figli di quel tempo”.
Un tempo in cui chi toccava certi fili veniva prima isolato, poi ucciso. Falcone, Borsellino, Livatino, Saetta. Nomi diventati simboli, ma che prima di essere martiri sono stati lasciati soli. “Anche nell’ambito istituzionale – ha sottolineato Di Matteo – questi colleghi sono stati delegittimati. E questo non possiamo dimenticarlo”.
Il rapporto tra i due magistrati è segnato da una profonda stima reciproca. Di Matteo definisce Ardita “un punto di riferimento”, uomo “autonomo, indipendente, appassionato di giustizia e vicino ai più deboli”. Un profilo raro, oggi, in un sistema che – come denuncia Di Matteo – “trasforma la magistratura in uno strumento bieco di potere, collaterale alla politica e schiacciato sulla burocrazia”.
Dentro il CSM: il fronte interno
L’esperienza condivisa al Consiglio Superiore della Magistratura è stata, per entrambi, un banco di prova. “Abbiamo cercato di difendere i magistrati veramente indipendenti – ha detto Di Matteo – quelli che vengono danneggiati proprio perché non appartengono ai centri di potere, non si piegano alle logiche correntizie”. È il “sistema”, ancora una volta, il grande imputato: un apparato capace di penalizzare chi cerca di restare fedele alla Costituzione e non agli equilibri interni.
Ardita non si nasconde: “Quando sono entrato in magistratura pensavo che i problemi venissero sempre dagli altri, poi ho capito che in parte siamo stati anche noi a fallire. La giustizia era sotto attacco, ma non sempre abbiamo reagito con la coerenza necessaria”.
Il senso della toga
Essere magistrato, per Ardita, è qualcosa che va oltre il ruolo tecnico. “Non si gioca una partita di calcio – spiega – ma una partita nella quale devono vincere le istituzioni. E in cui il compito del magistrato è trasmettere un senso di giustizia, anche quando esercita il potere più duro come un arresto o una condanna”.
“Il nostro compito è lasciare una traccia positiva nella società, dare un segnale di equità, di rispetto, di pacificazione. Anche chi ha sbagliato deve percepire la giustizia non come un atto violento, ma come un’azione comprensibile e legittima”.
Questa visione, però, non è scontata né tanto meno dominante. Secondo Ardita, “se chi lavora nella giustizia immette nel sistema altro veleno, non fa altro che negare il senso stesso della sua funzione”. È un monito pesante, che chiama in causa chiunque oggi rivesta ruoli apicali nella giurisdizione.
Il disastro delle carceri
Altro punto nevralgico toccato dal procuratore è quello delle carceri italiane, oggi in uno stato definito “drammatico”. “Stanno malissimo – denuncia – eppure sono il luogo dove si incontrano i due volti della giustizia: la ricerca dei colpevoli e la possibilità di rieducare chi ha sbagliato”. Se manca questo equilibrio, per Ardita, “la democrazia è in crisi”.
Non è solo una questione strutturale o sanitaria, ma una visione di fondo: lo Stato non può rinunciare a umanizzare la pena. Non può delegare la giustizia alla mera reclusione, pena lo svuotamento dei suoi stessi principi fondanti.
La fiducia nello Stato? Sì, ma non cieca
Entrambi, Ardita e Di Matteo, confermano la necessità di avere fiducia nello Stato. Ma quella fiducia – come chiarisce Di Matteo – “non può essere cieca, né supina”. “Significa anche saperne denunciare le patologie, far emergere ogni volta in cui ha tradito la sua funzione”.
“Non si può continuare a spazzare la polvere sotto il tappeto – insiste – serve il coraggio di guardare in faccia i propri errori. Solo così la fiducia nello Stato può sopravvivere”. E aggiunge: “Il nostro faro deve essere la Costituzione, soprattutto l’articolo 3, che obbliga la Repubblica a rimuovere gli ostacoli alla piena uguaglianza dei cittadini”.
Una voce fuori dal coro
L’intervista di Ardita, corroborata dalle parole di Di Matteo, è una boccata d’ossigeno per chi crede che la giustizia non sia una funzione tecnica, ma una battaglia civile. È anche, però, una voce scomoda. Una di quelle che il sistema spesso isola, delegittima, spinge ai margini.
La storia recente, del resto, lo insegna: chi osa ricordare le contraddizioni dello Stato, le sue complicità storiche con la criminalità organizzata, o le distorsioni interne alla magistratura, viene spesso trattato come un corpo estraneo. Ma oggi più che mai, servono voci come queste. Voci che non dimenticano, che non barattano il silenzio con il quieto vivere.
Perché, come ha detto Ardita, senza verità non c’è democrazia. E senza memoria, la giustizia rischia di diventare solo un rituale vuoto, incapace di trasformare davvero la società.