Al margine, sul bordo, al lato di una manifestazione, come ombre sottili i collaboratori organizzano con dimestichezza la scena; pazienti come orologi solari, sfregano la sigaretta sul muro, quando c’è urgenza di loro, per finirla quando si può.
Hanno portabagagli colmi di manifesti, di fac-simile di schede elettorali che si scambiano tra di loro a pacchi da mille come contrabbandieri onesti; cenano sul tavolo dei bambini, conoscono i discorsi del politico a memoria, tante volte li hanno sentiti, che spesso li ripetono in dialetto al benzinaio dell’autogrill.
I collaboratori hanno muscoli allenati alle lunghe attese e agli sprint veloci, sono comici, spaventati, guerrieri, che non misurano il tempo sugli orologi ma sul contachilometri esausto delle auto.
Hanno mogli che non chiamano mai, i collaboratori stringono mani già strette, rispondono sempre al telefono tra il secondo e il terzo squillo e, nelle ore di attesa, si producono da soli la propria ironia come un vino nostrano.
I collaboratori sono il mediano che a centro campo non molla e recupera i palloni, fondamentali come la mano sinistra del suonatore, mettono in ordine le carte, hanno nomi, indirizzi imprigionati nelle agende tra l’estate e il Natale.
Si sono seduti a cena con la vittoria e hanno conosciuto di persona la sconfitta, sempre immancabilmente soli, in mezzo a centinaia di facce viste, con i loro segreti rannicchiati e custoditi in un angolo della fronte.
Ma qualcuno l’ho sentito parlare, fino ad accorgermi che parlava una lingua troppo perfetta per essere pensato come un semplice autista, aveva dentro di se una militanza politica estenuante e così tante esperienze che lo rendevano un maestro di vita.
Alla fine ho compreso, l’ho riconosciuto, mi sono accorto che qualcuno di loro era proprio uno di quei ragazzi di quindic’anni di cui parlava Marcello Veneziani nel suo articolo capolavoro: “Gianfranco traditore e ladro di sogni”, quei ragazzi che sono i mandanti delle accuse a chi svenduto la loro storia, il loro essersi seduti dalla parte del torto e aver scelto una via impervia da percorrere aspramente, nella direzione opposta a quella in cui procedeva impetuosa la storia.
Così, quando quel qualcuno butta i pochi spiccioli sul poggia monete nella cassa di un autogrill, non riesco a non pensare alle paghette sacrificate e alle collette che un tempo hanno tenuto in vita sezioni e collettivi.
Mi scuserà il giornale di questo “non-articolo”, mi perdonerà di questa opinione, tuttavia non posso permettere che nessuno in questa campagna elettorale abbia fatto una lode pubblica ai collaboratori, coloro senza i quali nessun evento, nessuna comunità e nessuna battaglia sarebbe stata possibile. Lode ai collaboratori.
Marco Minnucci