Quattro arresti dopo l’operazione “Fenice”: intimidazioni, armi, concorrenza sleale e una leadership mafiosa che scricchiola. Le nuove leve? “Gente fusa di cervello”.
Misilmeri sotto scacco: la vecchia mafia in crisi, tra violenza, affari e figli da proteggere. Nel cuore dell’entroterra palermitano, a Misilmeri, la scena si ripete, ma stavolta con un retrogusto amaro, quasi disilluso. La mafia c’è, ma non è più quella di un tempo. Non ha più codici, né gerarchie intoccabili. E a raccontarlo non sono le inchieste giornalistiche, ma le stesse voci di chi ha abitato per anni le stanze buie dell’organizzazione criminale.
È in questo scenario che i Carabinieri della Compagnia di Misilmeri, al termine di un’indagine lunga e articolata, hanno eseguito quattro arresti con accuse pesantissime: associazione mafiosa, estorsione tentata, violenza privata, favoreggiamento e concorrenza illecita. Il blitz è stato la prosecuzione operativa dell’Operazione Fenice, scattata nell’ottobre 2022, che aveva già decapitato i vertici storici del clan locale.
I nomi? Alcuni noti, altri meno. In carcere sono finiti Melchiorre Badagliacco, detto Antonino, 52 anni, e Salvatore Baiamonte, 53, già detenuto per altra causa. Ai domiciliari invece Giuseppe Gigliotta, 61 anni, e Giuseppe Carmicino, alias Fabio, 40 anni. Tutti legati, a vario titolo, alla storica rete di Cosa nostra tra Misilmeri e Palermo.
Un potere fatto di intimidazioni e affari locali
Gli inquirenti parlano chiaro: il gruppo aveva messo in piedi un sistema di controllo mafioso del territorio, puntando agli imprenditori locali con pressioni, minacce e vere e proprie operazioni di concorrenza sleale. Un esempio su tutti: il tentativo di estromettere con la forza un venditore ambulante “scomodo”, evidentemente colpevole di intralciare il giro d’affari del clan.
Ma non è tutto. Dietro a questa azione criminale, c’era anche un arsenale di armi pronte all’uso. Gli investigatori hanno confermato che il gruppo disponeva di armamenti che sarebbero stati utilizzati per imporre ordini e far valere la propria egemonia mafiosa nell’area.
Il retroscena: la mafia senza morale
A parlare è proprio Badagliacco, in una conversazione intercettata dai Carabinieri mentre si confrontava con Baiamonte. Dalle sue parole emerge un quadro desolante: “Non c’è più rispetto, non c’è più mentalità. Siamo circondati da picciutteddi senza testa. Se dici di no, ti puntano la pistola in faccia.”
Un tempo i clan seguivano una linea precisa, fondata sulla gerarchia, sul silenzio e sul rispetto per i “vecchi”. Oggi, racconta l’ex boss, tutto è cambiato: “Qua è pieno di giovani fuori controllo, gente fusa di cervello. Non ti conoscono, ma pretendono. Non ragionano. Non chiariscono. Impongono.”
Parole che non rappresentano solo un momento di frustrazione personale, ma il segno tangibile di una transizione mafiosa: dalla strategia all’impulsività, dalla fedeltà al caos.
I figli, il pallone, la pandemia: l’altra faccia del boss
C’è poi un passaggio umano, crudo e inaspettato. Badagliacco, in quella stessa conversazione, spiega perché si sia “ritirato” per un periodo dal giro mafioso. “Avevo due figli… uno giocava a pallone, stava andando bene… poi è arrivata la pandemia, ed è finito tutto.”
Quel che traspare è il tentativo (forse tardivo) di disintossicarsi da una vita fatta di rischi e violenze. “Io mi sono fermato… per non rovinare i miei figli.” Parole che raccontano l’ambivalenza di una generazione criminale cresciuta nella logica della paura, ma ormai consapevole del vuoto che ha lasciato in eredità.
L’intermediario del boss e la rete nascosta
Tra i quattro arrestati, c’è anche un 40enne accusato di aver svolto il ruolo di intermediario fidato. Secondo gli investigatori, il suo compito era quello di garantire il collegamento tra il vertice del mandamento Misilmeri-Belmonte e i vari affiliati, consentendo riunioni riservate, lo scambio di messaggi e l’organizzazione di “appuntamenti strategici”. Il tutto per eludere le intercettazioni e tenere la rete criminale al riparo dall’occhio dello Stato.
Ma le indagini hanno fatto breccia. L’organizzazione, che sembrava impermeabile, ha mostrato crepe profonde.
“Nessuno ti aiuta”: la legge del più forte
Un altro aspetto rivelato dalle intercettazioni riguarda la gestione dei detenuti. Baiamonte, in un’altra conversazione, ammette: “Se sbagli, ti lasciano solo. Nessuno ti mantiene, nessuno si prende cura della tua famiglia.” È un’ammissione pesante, che scardina l’immagine della “famiglia” mafiosa come rete solidale. Oggi, chi cade, cade da solo. E viene dimenticato.
La lealtà non esiste più. Al suo posto, c’è la paura di essere rimpiazzati o traditi. L’onore, se mai c’è stato, è diventato merce di scambio.
Le nuove leve: potere senza logica
È la degenerazione di un sistema che non regge più. “Oggi appena gli dici no, ti mettono la pistola in testa. Non c’è dialogo, non c’è mediazione. Solo rabbia.” Così i vecchi boss commentano le nuove generazioni. Giovani aggressivi, privi di codice, incapaci di aspettare, ma pronti a usare la violenza per conquistare potere.
Non è la fine della mafia, ma la sua metamorfosi. Meno struttura, più istinto. Meno omertà, più caos. Un cambiamento che rende il fenomeno ancora più difficile da decifrare e da combattere.
Un sistema che implode
Questa nuova operazione dei Carabinieri non è soltanto un blitz repressivo. È la fotografia di un mondo che si sgretola, ma che continua a generare pericolo. Una mafia che perde coerenza, ma non forza intimidatoria. Un’organizzazione criminale che non riesce più a reggersi sulle regole del passato, ma che ancora controlla pezzi di territorio con violenza e paura.
Misilmeri non è un caso isolato. È lo specchio di una realtà che si ripete in molte periferie italiane, dove la criminalità organizzata tenta di reinventarsi, tra faide interne, povertà educativa e mancanza di alternative. Ed è proprio lì che bisogna guardare, per capire dove – e come – colpire.