“La cancrena coinvolse molte più articolazioni di quanto non voglia una vulgata rassicurante che si limita ai servizi segreti deviati. In scena vediamo muoversi ufficiali, funzionari e rappresentanti dello Stato mossi non solo da un tenace anticomunismo e dalla fedeltà al Patto Atlantico, ma invischiati in giochi di potere e in reticoli criminali. Però questa è solo una parte della storia”.Questo il commento dell’autrice di “Piazza Fontana. Il processo impossibile” Benedetta Tobagi intervistata da Repubblica in occasione dell’uscita del libro. Si tratta di un processo durato trentasei anni e che, nonostante tutto, è rimasto incompiuto. Non si sono mai avuti i nomi degli esecutori materiali della strage ma, in compenso, è stata consegnato alla storia il volto politico dell’attentato certificando la responsabilità di Freda e Ventura, esponenti di Ordine Nuovo spalleggiati dai servizi segreti. Diciassette i morti e novanta feriti di Piazza Fontana per un ordigno esploso alla Banca dell’Agricoltura il 12 dicembre del 1969. A quella strage la Tobagi ha dedicato quattrocento pagine di racconti e di studio archivistico. “Lo Stato è un organismo complesso e policentrico” spiega l’autrice. “In realtà sono Stato anche i magistrati e i poliziotti che con grande coraggio e guizzi di intelligenza hanno consentito l’accertamento della verità. E a me interessava mettere in luce questo aspetto: gli sforzi di tante figure spesso dimenticate”. Nel libro ci si concentra molto sul primo processo di Catanzaro, durato quasi vent’anni. “Il processo fu spedito in Calabria perché venisse definitivamente seppellito. E invece quei giudici riuscirono a fare un lavoro straordinario, portando lo Stato alla sbarra”. E, aggiunge, “in Italia esiste una vivacissima subcultura di destra che, oltre a idealizzare il fascismo, nega il coinvolgimento – largamente provato – dell’estrema destra nelle stragi. E addirittura sin dagli anni Settanta si nasconde dietro lo slogan della ‘strage di Stato’, quindi i neri non c’entrano!”. “Esisteva un accordo tra l’allora presidente della Repubblica Giuseppe Saragat e il premier Mariano Rumor – un patto benedetto dagli Stati Uniti – per far salire la temperatura politica al fine di favorire uno spostamento a destra dell’asse politico. Una versione minimale della strategia della tensione. Ma questo patto segreto fu scavalcato dalla destra eversiva che preferì fare una fuga in avanti, protetta dai servizi nazionali e internazionali. Aldo Moro contribuì a fermare lo spostamento a destra, promettendo in cambio il silenzio, ossia l’insabbiamento della pista nera. Quella che però oggi appare come una brutale ragion di Stato va collocata nel contesto di una Repubblica giovanissima, gravata dall’eredità del fascismo e dal vincolo della guerra fredda”.“Allora era ancora molto forte un’idea di giustizia come strumento di mantenimento dell’ordine e del potere. Furono i giovani magistrati, poliziotti e avvocati a immettere nel sistema una cultura costituzionale che poi avrebbe prodotto mutamenti profondi. Anche per questo credo che il processo vada interpretato non solo come un incubo della Repubblica ma anche come un risveglio. Come il passaggio della linea d’ombra di Conrad, un drammatico e durissimo passaggio all’età adulta: non solo per il sistema giudiziario e per la cultura legale, ma per tutto il Paese”.