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Un bel po’ di cosiddette “società partecipate” che danno lavoro (si fa per dire) e stipendi (corposi) ad amministratori e dipendenti. Spesso amici degli amici e parenti. Società che, molto spesso, sono doppioni di altre le quali svolgono la stessa funzione; poi ci sono quelle nate per uno scopo ma che fanno tutt’altro e poi, infine, ci sono quelle semplicemente fantasma, delle quali non si conoscono né bilanci né scopi.

Un fantastico mondo, quelle delle società partecipate italiane, fatto di 7.090 enti, di cui 5.768 a tutt’oggi in attività, che danno lavoro a 327.807 persone. E che costa ai cittadini circa 26 miliardi. Le proprietà, manco a dirlo, sono di Regioni, Comuni, città metropolitane, dunque pubbliche. Partecipate che si occupano di tutto gestendo un fiume di denaro pubblico: dai trasporti ai servizi, dai rifiuti all’acqua. Ma soprattutto, svolgono attività creditizia, sollevando non pochi dubbi.

Qualche tempo fa a esplorare quell’universo è stata la Corte dei Conti che ha acceso un faro sulle gestioni degli “organismi partecipati dagli enti territoriali”. E, come sempre accade quando si mette mano nell’organizzazione pubblica, si accerta che le cose non funzionano nel verso giusto. In alcune regioni, infatti, le perdite d’esercizio sono risultate mostruose, soprattutto in quelle compagini a totale partecipazione pubblica.

Sarà per questo che il governo Conte ha riportato il carcere anche per chi le tasse non può pagarle perché in momentanea difficoltà?

“La gestione finanziaria dimostra una netta prevalenza dei debiti sui crediti in tutti gli organismi esaminati. Nel complesso, i debiti ammontano a 104,41 miliardi, di cui circa un terzo è attribuibile alle partecipazioni totalitarie. La gran parte di tali debiti è stata contratta dalle partecipate del Nord Italia (il 74%), con una forte concentrazione in Lombardia (26,5 miliardi), Friuli-Venezia Giulia ed Emilia-Romagna (rispettivamente: 12,71 e 8,89 miliardi). Tra le Regioni del Centro, spiccano gli organismi del Lazio (11,28 miliardi) e, nel Meridione, i valori più elevati si registrano in Campania e Sicilia (3,87 e 3,24 miliardi)», si legge nella relazione.”

A scriverlo la Corte dei Conti che ha anche accertato che dagli esiti della revisione straordinaria emerge che il 37,35% versa in condizioni da richiedere un intervento di razionalizzazione da parte dell’ente proprietario”.

Preoccupa, inoltre, il massiccio ricorso fatto dagli enti di controllo degli affidamenti diretti alle proprie controllate, con buona pace delle gare competitive:

“nonostante la rigidità dei presupposti per derogare ai principi della concorrenza, su un totale di 15.139 affidamenti, le gare con impresa terza sono soltanto 828 e gli affidamenti a società mista, con gara a doppio oggetto, 146”.

La questione riguarda i contratti di servizio, spesso dati senza gara alle controllate, derogando sia al principio della competizione che a quello dell’efficienza.

E non è finita in quanto secondo i giudici “in numerosi enti, assumono un posto di rilievo le partecipazioni in società che operano quale centro di coordinamento ed attuazione dell’attività finanziaria promossa dalle Regioni e che, gestendo ed erogando fondi propri, fondi pubblici o fondi da reperire sul mercato anche attraverso la promozione di strumenti finanziari innovativi, si pongono quali organismi intermedi per la realizzazione di specifici programmi (Molise, Campania, Liguria, Lombardia, Veneto). Le Sezioni del controllo hanno, sul punto, rilevato che la devoluzione a società partecipate dell’attuazione delle politiche di sviluppo regionali (Molise, Veneto, Lombardia) ha sottratto al controllo della Regione un notevole flusso di danaro e ha consentito un ampliamento di funzioni e attività che, in alcuni casi, esulano dall’oggetto sociale della partecipata (Campania)”.

Insomma, le partecipate hanno a disposizione milioni di euro che, spesso, non appaiono nei bilanci delle Regioni e dei Comuni. E perché nascondono i bilanci? Perché altrimenti chiuderebbero i battenti.

Secondo quanto stabilito dall’allegato “A” al Testo unico, l’art. 24 del TUSP, infatti, dovrebbero essere liquidate o “razionalizzate” (fuse o incorporate) tutte quelle partecipate che:

  • vantano un risultato d’esercizio negativo conseguito per quattro volte nel quinquennio precedente;
  • abbiano ad oggetto attività di produzione di beni e servizi non strettamente necessari per il perseguimento delle finalità istituzionali dell’ente proprietario;
  • risultino prive di dipendenti o abbiano un numero di amministratori superiore a quello dei dipendenti;
  • abbiano partecipazioni in società che svolgono attività analoghe o similari a quelle svolte da altre società partecipate o da enti pubblici strumentali;
  • che, nel triennio precedente, abbiano conseguito un fatturato medio non superiore a 500.000 euro.

La realtà, però, è un’altra visto che gli enti territoriali hanno salvato sette società su 10. Teoricamente ogni amministrazione avrebbe dovuto fare un’analisi dello stato di ogni partecipata, comunicarlo alla Corte dei Conti e decidere quali sopprimere, quali accorpare, quali tenere aperte. “Su un totale di 4.603 società interessate dalla revisione, 1.719, il 37,35% del totale, versano in almeno una delle situazioni che richiederebbero un intervento da parte degli enti proprietari”. Quindi dovrebbero chiudere subito. Il fatto è che non chiudono in quanto danno lavoro a 10.438 persone. Sotto questo aspetto, la regione più virtuosa è il Lazio, con 44 società da sopprimere su 207 (il 21%), maglia nera invece è la Basilicata con 29 controllate su 64 fuori norma (65,9%); segue il Trentino (227 su 354, il 64%); poi Valle d’Aosta (30 su 64, 46,8%); quindi Sicilia (133 su 229, 44,9%) e Abruzzo (91 società su 196, 46%).

Ma non è finita. Ci sono 119 organismi che non svolgono servizi di interesse generale e che presentano tutti e tre i profili di criticità, cioè perdite di esercizio in almeno 4 anni del quinquennio 2011-2015, fatturato medio del triennio 2013-2015 inferiore a 500 mila euro, assenza di dipendenti o numero di dipendenti inferiore a quello degli amministratori. Complessivamente perdono 43.739.855 l’anno e hanno solo 55 lavoratori. Qui la maglia nera spetta alla Lombardia, con ben 16 società inutili e dannose. 

Considerando solo il fatturato, invece, su 4.603 società ben 1.922 (oltre il 40%) presentano un fatturato medio triennale inferiore a 500.000 euro. Escludendo le 690 già cessate o in liquidazione ne restano in attività 1.232. Tuttavia queste danno lavoro a 3.615 dipendenti, prevalentemente concentrati in Campania (871 unità di personale su 82 società), in Piemonte (456 unità su 86 società), in Emilia-Romagna (241 unità su 69 società), in Veneto (222 unità su 83 società) e in Lombardia (210 unità su 149 società), quindi le amministrazioni le tengono aperte.

Ben 1.701 casi hanno meno dipendenti degli amministratori, o che sono addirittura prive di dipendenti. In questa categoria il primato spetta al Trentino-Alto Adige (200 su un totale regionale di 354), seguito dalla Lombardia (177 su 688), Veneto (89 su 368), Piemonte (88 su 320) e Sicilia (82 su 229).

Sembrano infiniti, poi, i casi di duplicazione di attività svolte da più società partecipate della stessa Regione soprattutto nei settori delle forniture e dei servizi informatici (Molise), del trasporto pubblico (Sicilia), dei servizi aeroportuali (Sicilia), autostradali (Valle d’Aosta), delle attività finanziarie e di quelli di prestazione di servizi (Sicilia). Ci sono, in sostanza, società che hanno il medesimo regime giuridico e contabile le quali, a volte senza aver realizzato le opere per le quali erano state costituite, “continuano a svolgere attività residuali rispetto alle originarie finalità, con conseguente raddoppio di costi per apparati amministrativi”. Sotto questo aspetto, il primato spetta di diritto alla Sicilia che vanta “doppioni” in ogni settore:

  • Nel trasporto pubblico locale, dove “l’Azienda Siciliana Trasporti S.p.A.”, di cui la Regione aveva programmato la dismissione, continua a operare, nonostante svolga la stessa attività della “Jonica Trasporti S.p.A.”;
  • negli aeroporti, con la “Airgest S.p.A.”, gestore dell’aeroporto di Trapani, che ha nella “AST Aeroservizi S.p.A” (sempre una partecipata) una gemella omozigote;
  • nei servizi, con la “Servizi Ausiliari Sicilia S.c.p.a.”, che fa la stessa cosa della partecipata “Resais Spa”;
  • nei servizi finanziari dove “Irfis Finsicilia S.p.A.” propone i medesimi servizi degli istituti di credito regionali “Crias” e “Ircac”. E la lista potrebbe continuare ancora a lungo.

A seguire c’è la Calabria visto che “la maggior parte degli Enti locali (60%) nonché le Province di Cosenza, Catanzaro, Crotone, Reggio Calabria e Vibo Valentia hanno mancato di comunicare le informazioni richieste sull’eventuale sussistenza di organismi partecipati”. La Regione Calabria non ha idea di quanti soldi debba alle sue 19 controllate e viceversa.

Di certo si sa che gran parte dei fondi erogati dalla regione alle partecipate nel 2017 sono stati “destinati principalmente alla copertura dei costi del personale e che, quest’ultimi, assorbono strutturalmente la maggior parte delle risorse di bilancio degli organismi sub-regionali, a discapito della loro efficienza e produttività”.

Altro caso limite è la Basilicata: a inguaiarla sono le partecipazioni non registrate della società “Sviluppo Basilicata S.p.A.”, che gestisce il fondo regionale “Venture Capital”. La controllata ha acquisito, nel 2016, alcune partecipazioni sociali in piccole e medie imprese operanti in Basilicata, ma si è “dimenticata” di trasmettere “l’elenco delle società, degli enti strumentali, degli Enti interregionali e degli Enti di diritto privato controllati e facenti parte del “Gruppo Basilicata”, completo di tutte le partecipazioni anche indirette possedute al 2016 e aggiornate al 2017”.

Ad essere bacchettata anche l’allora giunta Chiamparino per “la perdurante incertezza sul progetto di integrazione tra “Finpiemonte S.p.A.” (società finanziaria in house della Regione) e “Finpiemonte Partecipazioni S.p.A.” (holding regionale che si occupa della gestione delle partecipazioni), per la mancanza di una chiara, lineare ed adeguatamente ponderata strategia di lungo termine, da perseguire dopo la riorganizzazione e razionalizzazione delle loro partecipazioni dirette ed indirette, ma non supportata da seria valutazione di fattibilità in presenza di un’organizzazione imprenditoriale non adeguata. Inoltre, con particolare riferimento alla società “Finpiemonte S.p.A.”, la Sezione ha evidenziato criticità nella modalità di gestione dei fondi vincolati, nell’utilizzo dei fondi destinati all’aumento di capitale e nella correttezza e trasparenza dei compensi erogati dalla Regione”.

In Lombardia, invece, i giudici hanno puntato il dito contro il provvedimento di revisione straordinaria delle partecipazioni societarie del Comune di Milano e sono stati accertati

“non solo l’omessa redazione, per società quotate e partecipazioni detenute indirettamente per il loro tramite, delle schede di analisi sulla mancata ricorrenza dei parametri posti a presupposto delle azioni di razionalizzazione, ma anche l’eccessivo costo medio del personale dipendente in servizio presso alcune società partecipate”.

All Regione Lombardia di Attilio Fontana hanno imputato le ingenti risorse regionali che restano “al di fuori della gestione diretta della Regione Lombardia”, perché depositate sui conti degli enti partecipati. Nell’occhio del ciclone resta anche “Finlombarda S.p.A.”, la cui attività di “intermediario ex art. 106 del T.U. Bancario e come emittente di strumenti finanziari sui mercati quotati” desta più di un dubbio. “Finlombarda S.p.A.” avrebbe distribuito a favore del socio unico Regione Lombardia la somma di euro 10 milioni mediante prelievo di tale importo dalla riserva di bilancio. 

 

 

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