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Caro Stato dove sei?

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La triste vicenda di Joseph Sumith

In questi giorni la prima pagina degli organi di informazione come prevedibile è stata dominata dalle primarie del PD.  Mentre legittimamente i due sfidanti si lanciavano in appelli e promesse, a Napoli è andata in scena l’ennesima grande sconfitta per lo Stato italiano: il suicidio, a soli 33 anni, dell’imprenditore cingalese Fernando Joseph Sumith. Voleva essere un uomo normale, lo hanno costretto a diventare un eroe.  Joseph era arrivato molto giovane in Campania, aveva lavorato sodo impegnandosi nei mestieri più umili per  mettere dei soldi da parte e riuscire ad aprire due piccoli alimentari e due Internet Point.  La camorra a quel punto è venuta a bussare alla sua porta, chiedendo una doppia tangente, secondo una equazione semplice e agghiacciante: due quartieri, doppio racket. La moglie gli aveva detto di andar via e lasciar perdere, lui invece non si è voluto arrendere. Ha raccolto prove e denunciato tutto alle forze dell’ordine mandando in carcere per estorsione nell’aprile scorso il boss del Cavone Ciro Lepre e due complici. Un premio all’ultima festa della polizia e tanti applausi per il suo coraggio. Poi però, una volta spente le luci dei riflettori e calato il sipario, si è sentito solo, abbandonato completamente dalle istituzioni, con debiti in costante aumento (chissà perché) e continue minacce in attesa del processo contro il boss che si sarebbe dovuto celebrare in questi giorni. Fino a meditare questo gesto estremo, forse per salvare i suoi cari. L’ultima beffa anche nel momento dell’ultimo saluto. I funerali si sono svolti il 2 dicembre e non come si pensava nella Chiesa del Gesù Nuovo,  considerata un luogo simbolo della prime comunità straniere a Napoli, ma in una saletta sottostante alla Chiesa di Piazza del Gesù. Alla richiesta di spiegazioni fatta da un giornalista è seguita una scenetta imbarazzante: parroco malato, vice assente e soltanto una dichiarazione a telecamere spente: ” Avevamo tutte le messe domenicali che non potevamo spostare”. 

 

Ignazio Urtubia

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