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Mazzette, diamanti e Rolex: 10 anni di carcere all’ex giudice di Trani Antonio Savasta

Mazzette, diamanti e Rolex: 10 anni di carcere all'ex giudice di Trani Antonio Savasta

Condannato a 10 anni di carcere l'ex pm di Trani, Antonio Savasta. Il giudice ha pilotato sentenze e vicende giudiziarie e tributarie, tra il 2014 e il 2018

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Il “Sistema Trani” porta in carcere l’ex pm, Antonio Savasta. Il giudice dovrà scontare il carcere per 10 anni. Inoltre, nella sentenza sulla giustizia truccata il gup di Lecce, Cinzia Vergine, ordina la confisca di beni per 2,4 milioni di euro.

Un Pm e un giudice in carcere per associazione per delinquere, corruzione e falso. Sequestrati beni per oltre un milione di euro tra cui diamanti e Rolex

Savasta è stato condannato con rito abbreviato per aver pilotato sentenze e vicende giudiziarie e tributarie, tra il 2014 e il 2018, in favore di imprenditori coinvolti nelle indagini, in cambio di mazzette in denaro, gioielli e in alcuni casi diamanti, ma anche regali costosi e ristrutturazioni di appartamenti. Con lui sono stati condannati l’ex pm tranese, Luigi Scimé (4 anni) che è attualmente in servizio a Salerno, l’avvocato Ruggiero Sfrecola (4 anni e 4 mesi) e l’avvocato Giacomo Ragno (2 anni e 8 mesi). Quattro anni di carcere per l’imprenditore Luigi Dagostino, ex socio di Tiziano Renzi, il padre del leader di Italia Viva.

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Nel gennaio 2019 Savasta viene arrestato insieme al collega Michele Nardi e all’ispettore di Polizia Vincenzo Di Chiaro. L’accusa è di corruzione in atti giudiziari e concussione. Il processo per gli altri cinque indagati nell’inchiesta su quello che è stato definito il “Sistema Trani” è in corso con rito ordinario davanti ai giudici della seconda sezione penale del Tribunale di Lecce. Nei giorni scorsi è stato emesso il rinvio a giudizio e la prima udienza del processo è fissata il 4 novembre.

Secondo l’accusa i magistrati chiedevano regali costosi, ristrutturazioni di appartamenti e mazzette per pilotare le indagini e aggiustare i procedimenti. Un vero e proprio “sistema” che attraverso la redazione di false denunce, false testimonianze e una serie di illeciti, metteva al riparo i corruttori dalle indagini della magistratura. 

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Savasta era accusato di far parte insieme a Nardi e ad altri tre imputati, tra i quali l’ispettore di Polizia Vincenzo Di Chiaro, di una vera e propria associazione a delinquere finalizzata a corruzione in atti giudiziari, falso ideologico, millantato credito, calunnie e falsa testimonianza. Il gruppo criminale, per la procura leccese, poteva contare su numerosi soggetti “vicini” che pur non essendo organici all’associazione potevano fornire contributi determinanti per permettere al gruppo di raggiungere i propri obiettivi. A capo del gruppo c’era il gip Michele Nardi: era lui attraverso la sua conoscenza del sistema Trani a fornire informazioni a imprenditori vicini, sui turni di servizio dei magistrati e quindi sull’assegnazione dei fascicoli d’indagine.

Flavio D’Introno – giudicato separatamente – ha svelato agli investigatori delle ingenti somme versate al gruppo per ottenere la manipolazione delle indagini o dei processi a suo carico. A D’introno, l’ex giudice Nardi aveva promesso un intervento presso i colleghi che lo stavano giudicando nel processo. In cambio avrebbe ricevuto un viaggio a Dubai da 10mila euro. Non solo. Nardi avrebbe ricevuto lavori di ristrutturazione dell’appartamento romano del valore di 120mila euro e di lavori di ristrutturazione di una villa a Trani di quasi 600mila euro. Poco prima della sentenza, avrebbe chiesto la somma di 2 milioni di euro definendola necessaria per “comprare” il favore dei giudici che componevano il collegio.  

L’organizzatore

Antonio Savasta era indicato come “l’organizzatore” dell’associazione a delinquere. Il compito era quello di “attivare e gestire” in modo strumentale all’interesse di D’Introno i procedimenti penali e tributari che lo riguardavano. Savasta avrebbe svelato a D’Introno l’esistenza di indagini che lo riguardavano nella procura di Lecce. Il gruppo inoltre poteva contare su diversi avvocati tra i quali Simona Cuomo.

A Luigi Scimè è contestata la corruzione. In accordo con Nardi e Savasta avrebbe chiesto l’assoluzione di D’Introno nel processo ribattezzato “Fenerator”. In cambio anche a Scimè l’imprenditore avrebbe versato tangenti per un ammontare complessivo di 75mila euro. 

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