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Ve lo ricordate il caso Cpl Concordia? Dopo due anni restano molte assoluzioni e infinite polemiche che travolsero, tra l’altro, anche Massimo D’Alema per fatti penalmente irrilevanti.

Vennero sbattute in prima pagina, tanto per cambiare, intercettazioni segrete tra Matteo Renzi e il generale della Finanza Michele Adinolfi. Due scandali entrambi legati al nome di Francesco Simone, consulente per la comunicazione istituzionale di Cpl Concordia e imputato da Woodcock per corruzione internazionale, associazione per delinquere per corruzione e falsa fatturazione.

“L’accusa di corruzione internazionale è decaduta il giorno stesso dell’arresto” spiega Simone a Il DubbioRimangono in piedi l’associazione per delinquere finalizzata alla corruzione, ma il presunto corrotto il sindaco di Ischia Giosi Ferrandino – sta per essere con tutta probabilità prosciolto a Napoli; mentre la falsa fatturazione è sotto soglia, quindi degradata a reato amministrativo.”

Dunque, Simone racconta il proprio dramma:

“È iniziato alle 6 di mattina del 30 marzo 2015, quando sei carabinieri si sono presentati a casa mia per notificarmi l’ordine di arresto e portarmi prima in caserma e poi a Poggioreale. Sono stati i 35 giorni più difficili della mia vita, in condizioni a dir poco medievali e non degne di un paese civile, in una cella 4 metri per 4 con altri sei detenuti, dove era un lusso farsi due docce a settimana con l’acqua fredda.”

Poi racconta il metodo usato nell’interrogatorio di garanzia.

“È durato pochi minuti. Io del gip non ricordo nemmeno la voce: ha parlato solo il dottor Woodcock. Il giorno dopo venni convocato per l’interrogatorio con il dottor Woodcock e il capitano Scafarto, ma in quell’occasione non mi venne contestato alcun reato. Io ammisi di aver portato dalla Tunisia, dove ho una società a me intestata, due tranche di denaro da circa 38.500 euro. Durante l’interrogatorio, però, iniziarono a farmi delle domande, cercando di chiarire il contesto in cui svolgevo il mio lavoro, le mie frequentazioni e i politici che incontravo. La mia impressione fu di essere considerato l’anello debole che avrebbe potuto cedere, rivelando un sistema che in qualche modo riguardava politici che avevo incontrato come referente dell’attività istituzionale di Cpl. Io però lo dissi: da parte mia non ero al corrente di alcun fatto che riguardava soggetti politici. Dopo l’interrogatorio, su tutti i giornali uscì il titolo “Il pentito Simone accusa”.

“Una vicenda assurda: la coop comprò vini da D’Alema come li comprava da molti altri fornitori, perché rientrava in un’attività normale per la cooperativa. Mi spiace che a causa mia D’Alema sia rimasto invischiato nella vicenda: come ho detto ai magistrati, io con lui non ho mai avuto alcun rapporto di amicizia e l’acquisto dei vini nasce dopo un incontro casuale tra D’Alema e il presidente Casari, per un ammontare complessivo di 2500 bottiglie, di cui 200 autografate.”

Dopo i 35 giorni di detenzione il gip Salvatore Romito dispose la scarcerazione di Simone dopo aver passato tre giorni di arresto nel carcere di Modena:

“Una decisione opposta a quella degli inquirenti napoletani. Questo è uno degli elementi più terrorizzanti per un cittadino: è terribile che in un paese ci siano due approcci così differenti da parte della Procura. Quella di Napoli era pronta a tenermi in carcere sine die, quella di Modena decise che non esistevano gli estremi. La mia vita distrutta: ho perso il lavoro che mi piaceva e il reddito per mantenere la mia famiglia. La stampa mi ha descritto come il capo della Cpl e di chissà quale sistema corruttivo, ma io ero un semplice consulente per la comunicazione istituzionale e non mi sono mai occupato di appalti e contratti. Oggi sto ricominciando, con la concreta speranza di poter essere completamente assolto.”

Secondo gli inquirenti, gli imprenditori svolgevano funzioni operative all’interno del clan dei Casalesi, in particolare del gruppo Schiavone-Zagaria, curandone non solo gli interessi economici ma anche favorendone l’ingresso nel tessuto finanziario.

Gli ex manager della Cpl si accordarono con i vertici del clan di camorra – che gestivano i lavori di metanizzazione e la distribuzione del gas nell’agro-aversano – ottenendone sostegno. Per i magistrati della Dda di Napol è questa la fotografia di quanto accadeva tra Campania e basso Lazio. 

I magistrati, dinanzi al collegio del giudice Francesco Chiaromonte, hanno chiesto 12 anni per gli imprenditori casertani Schiavone e Piccolo, e otto anni per gli ex manager della coop rossa. L’inchiesta nacque dalle dichiarazioni dell’ex boss, Antonio Iovine, oggi collaboratore di giustizia, che raccontò ai magistrati degli affari del sodalizio criminale durante i lavori di metanizzazione nei comuni di San Marcellino, Frignano Maggiore, Villa di Briano, Casal di Principe, Villa Literno, Casapesenna e San Cipriano.

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