Quando De Benedetti fu arrestato dal giudice Iannini, moglie di Bruno Vespa
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Correva l’anno 1993 quando Carlo De Benedetti fu tratto in arresto nella caserma milanese di via Moscova.

Tangentopoli

Lui, l’ingegnere, nel pieno della tempesta di Mani Pulite, “quando aveva capito che le indagini del pool si avvicinavano alle tangenti versate dalla sua Olivetti ai partiti della Prima Repubblica -racconta Il Giornale– , aveva mandato i suoi legali a trattare a Palazzo di giustizia, chiedendo di incontrare Di Pietro e i suoi colleghi a piede libero, promettendo di consegnare loro un memoriale-confessione“.

In quegli anni in tanti cercavano il salvacondotto.

Ci provò Raul Gardini a cui i giudici dissero di no. Poco tempo dopo l’inventore di Enimont si sparò alla testa. De Benedetti il 16 maggio 1993 poté incontrare i pm nella caserma dei carabinieri di via Moscova, ammettendo quello che fino al giorno prima aveva negato giurando e spergiurando: cioè di avere comprato appoggi e appalti a botte di miliardi. Per sbarcare nel business delle telescriventi, aveva autorizzato un suo manager a trattare le stecche con un dirigente delle poste. Dopo una contrattazione tra Cherubini e Parrella, il quale chiarì che tutti i fornitori dovevano pagare una quota ai partiti; si arrivò ad un accordo in base al quale Olivetti avrebbe pagato come tutti gli altri fornitori. Una corruzione gigantesca, tanto che il giorno dopo Eugenio Scalfari su Repubblica si dichiarò ‘ferito e sconvolto’ dalla confessione del suo editore. Il pool si limitò a indagarlo a piede libero”.

L’arresto a Regina Coeli

Purtroppo per De Benedetti le cose non andarono come le aveva preventivate. Le tangenti alle Poste vennero pagate a Roma e l’inchiesta fu trasferita proprio nella capitale. Il pm Maria Cordova e il gip Augusta Iannini il 30 ottobre, cinque mesi dopo il colloquio con i pool milanese, spedirono in carcere De Benedetti con un mandato di cattura per corruzione. Era all’estero per il weekend. Il 2 novembre, il giorno dei morti, rientrò in Italia, si presentò dai carabinieri. E lì trovò l’ufficiale che lo dichiarò in arresto, lo caricò su un’auto e lo portò a Roma. Lo portarono di filato a Regina Coeli, e lo chiusero in cella.

Dodici ore dopo essere entrato in cella, un secondino lo avvisò che era già arrivato il momento di uscire: a casa, ai domiciliari. Tre giorni dopo, gli permisero di spostarsi a Milano, per stare agli arresti nella sua casa di via Ciovasso: arrivò a Linate con il suo aereo privato, accompagnato dall’addetto stampa. Al momento del processo, arrivato ben dieci anni dopo, se la cavò senza danni: lo assolsero per due capi di accusa, e per gli altri due se la cavò con la prescrizione grazie alle attenuanti generiche.

L’accusa al giudice Iannini

De Benedetti rispetto a questi fatti mosse un’accusa precisa, e grave, alla Iannini (aver favorito, da gip, Letta e Galliani rispetto a lui) moglie, tra l’altro, di Bruno Vespa. L’ex gip definì “fuorviante” la ricostruzione del presidente del Gruppo Espresso: “I procedimenti a carico di Carlo De Benedetti, di Gianni Letta e di Adriano Galliani, erano distinti e trattavano fatti del tutto diversi (…). Pervennero nella stessa data al mio ufficio con richieste di misura cautelare in carcere, modalità sulla quale, all’epoca, il gip non aveva il potere di adottare misure meno afflittive.

Ogni passaggio della mia istanza di astensione nel procedimento a carico di Gianni Letta fu condiviso e deciso come imposto dalla legge – dalla presidenza del Tribunale e non da me. Affermare come fa De Benedetti che quella mattina dovevano essere arrestati con lui anche Gianni Letta e Adriano Galliani… corrispondeva forse ad un suo auspicio, ma non aveva alcun fondamento sostanziale e processuale”.

Tant’è che la Iannini fece causa a Repubblica per aver pubblicato la stessa ricostruzione “fuorviante”, ottenendo ragione dal Tribunale civile, che ha condannato il quotidiano di De Benedetti a risarcirla per 100 milioni di lire.

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