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Alessio Feniello è il padre di una delle 29 vittime dell’hotel Rigopiano. A due anni da quella tragedia, attualmente, Feniello è l’unico a essere stato condannato. Sì, proprio così. La sua colpa è quella di aver violato i sigilli dell’area sottoposta a sequestro perché voleva portare fiori dove è morto due anni fa suo figlio. Il luogo dove avrebbe compiuto 30 anni. E mentre il filone d’inchiesta si sdoppia in due tronconi per la complessità dei fatti (e delle responsabilità) accertati, i giudici condannano il padre di una delle vittime a due mesi di reclusione convertiti in 4500 euro di multa.

di Antonio del Furbo


Così, mentre il processo va avanti tra testimoni che perdono improvvisamente la memoria e dirigenti che non si presentano alle udienze, Feniello, disperato, è costretto probabilmente al carcere perché non ha soldi per pagare la multa.

“È allucinante, e fa male, non sono neanche libero di portare un fiore” ha detto Feniello.Un tribunale, quello di Pescara, che chiede l’arresto di una persona che ha sepolto un figlio sotto quelle macerie e che non è ancora in grado di chiedere il conto ai responsabili di quella tragedia. È la giustizia a doppia velocità, risibile per uno Stato che si vuole proporre civile ma che, soprattutto, dimentica molto spesso di aver dato i natali a Cesare Beccaria.

Oggi, i giudici di Pescara ci dicono che sulla tragedia di Rigopiano ci sono 25 indagati. Ma non sanno ancora chi sono i colpevoli. Dopo due anni. Dopo 700 giorni il popolo italiano non sa perché i soccorsi partirono dopo 20 ore dalla tragedia. Eppure quegli ospiti erano pronti per andare via dall’hotel Rigopiano dal pomeriggio, in attesa che arrivasse una turbina a pulire la strada. Alle 22, a disastro avvenuto, la colonna dei mezzi imboccò l’ultimo tratto di strada: mancavano 9 km all’hotel ma l’ascesa dovette fermarsi. Era mezzanotte quando quattro uomini del Soccorso alpino e della Guardia di Finanza decisero di procedere con gli sci con le pelli di foca: dopo quattro ore estenuanti, arrivarono all’hotel e salvarono i due superstiti che avevano lanciato l’allarme. Solo alle 6.30 arrivarono gli elicotteri per portarli a valle.

Le responsabilità probabilmente sono diffuse ma ad oggi non sappiamo i nomi.

Francesco Provolo è l’ex prefetto di Pescara ed è indagato per aver occultato il brogliaccio delle segnalazioni del 18 gennaio 2017 alla Squadra Mobile di Pescara, al fine di nascondere la chiamata di soccorso fatta alle 11.38 dal cameriere Gabriele D’Angelo al centro coordinamento soccorsi. Gli altri indagati sono il presidente della provincia Antonio Di Marco, il sindaco di Farindola Ilario Lacchetta, l’amministratore del resort Bruno Di Tommaso e accusati a vario titolo di disastro colposo, omicidio colposo plurimo, falso ideologico, abuso edilizio, omissione d’atti d’ufficio.

Nelle relazioni consegnate agli investigatori e acquisiti agli atti non risulta una chiamata di 220 secondi alle 11.38 del 18 gennaio, cioè cinque ore prima della valanga. A effettuarla fu il cameriere dell’hotel Rigopiano, Gabriele D’Angelo, il quale chiedeva urgentemente alla prefettura di mandare una turbina sgombraneve per pulire la strada e consentire l’evacuazione del resort. Richiesta che, senza motivo, cadde nel vuoto.

Giancarlo Verzella, vice coordinatore della Sala Operativa della Protezione civile, ha dichiarato ai pm di “non essere a conoscenza di alcuna segnalazione proveniente dall’hotel Rigopiano” nella giornata del 18 gennaio. Dunque, Verzella non era a conoscenza né di quella di Gabriele D’Angelo e né delle altre fatte dopo la valanga. Verzella non ricorda nemmeno quella fatta da Quintino Marcella. Eppure Verzella, il 24 gennaio di due anni fa, quando non era indagato, alla stessa domanda, ovvero se fossero arrivate altre chiamate, rispose con un “Mi sembra di sì”. E poi c’è lei, Daniela Acquaviva, la funzionaria che non credette all’allarme disperato lanciato da Quintino Marcella. Acquaviva sei giorni dopo la strage fu in grado di indicare ai poliziotti della Squadra Mobile di Pescara dove andare a cercare le carte in cui erano state annotate tutte le telefonate e in cui, a rigor di logica, ci doveva essere anche quella di D’Angelo. “Ho visto che in Sala operativa c’è un brogliaccio dove annotare le varie emergenze, ricordo che era presente già il 18 gennaio nella stanza del Coordinamento…” disse la funzionaria ai pm. Stranamente, però, ieri interrogata di nuovo dagli inquirenti, ha cambiato versione:“In Sala operativa il giorno 18 gennaio non era presente alcun brogliaccio”.

Oggi, però, abbiamo un condannato: Alessio Feniello. E quando qualcuno chiede al Pm che lo ha condannato, Salvatore Campochiaro, una spiegazione, ovviamente, si sente di rispondere “no, mi dispiace ma non parlo con la stampa”. Eppure sarebbe interessante sapere come mai il giudice Campochiaro, che ha firmato insieme al procuratore capo della Repubblica di Pescara Massimiliano Serpi la condanna di Feniello, ha assolto per lo stesso reato la moglie di Feniello. “Lei non può stare qui, lei deve uscire” ha detto Campochiaro all’inviato delle Iene, Ismaele La Vardera che gli chiedeva conto della condanna. “Come mai l’unico condannato è il padre di una delle vittime” chiede ancora l’inviato al giudice che, ovviamente, non risponde.

Potrebbero anche non interessarci le risposte del giudice Campochiaro nel merito della questione. Potremmo anche sorvolare. Vorremmo sapere, però, se questa giustizia così lontana dalla gente, per una volta, sia in grado di assolversi versando un euro per aiutare Feniello a pagare la multa. Basterebbero 4550 persone e il papà di Stefano sarebbe uomo libero. Ancora. Solo 4550 persone: compresi i giudici Campochiaro e Serpi.

Conto bancario di Alessio Feniello: IT05Q0760115300000075912592 con causale “pagamento multa Rigopiano”.

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Di admin

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