Carcere ostativo: anche i giudici rinnegano Falcone e Borsellino. Claudio Fava: "Non al carcere duro dei boss"
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“Ripensare il 41bis è nell’agenda del vostro schieramento, sì o no?” chiede il giornalista a Claudio Fava e a Andrea Orlando. E i due, senza un minimo d’imbarazzo, rispondono affermativamente.

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Ora, si dà il caso che Fava e Orlando non sono due personaggi qualunque. Claudio Fava è stato, dal 22 ottobre 2013  al 9 gennaio 2018, vicepresidente della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali. E non solo. Fava è il figlio di Giuseppe Enzo Domenico Fava, detto Pippo, ucciso da Cosa nostra.

“Io ho un concetto etico del giornalismo. Ritengo infatti che in una società democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana, il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza della criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente allerta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo“.

Questo sosteneva Pippo Fava. La verità. E per questo venne ucciso perché troppo scomodo per Cosa nostra.

Alle ore 21.30 del 5 gennaio 1984 Giuseppe Fava si trovava in via dello Stadio e stava andando a prendere la nipote. Aveva appena lasciato la redazione del suo giornale. Non ebbe il tempo di scendere dalla sua Renault 5 che fu ucciso da cinque proiettili calibro 7,65 alla nuca. Partirono le inchieste. Ma solo nel 1993, a seguito delle accuse del collaboratore di giustizia, Claudio Severino Samperi, si arrivò al maxi-blitz con 156 arresti contro il clan Santapaola denominato “Orsa Maggiore”. Vennero incriminati Nitto Santapaola e il nipote Aldo Ercolano rispettivamente come mandante ed esecutore materiale dell’omicidio Fava.

L’anno successivo arrivarono le dichiarazioni di Maurizio Avola, il quale si autoaccusò di aver avuto un ruolo operativo nel delitto e indicò i nomi degli altri assassini. Nel 1998 si concluse a Catania il processo denominato “Orsa Maggiore 3” dove per l’omicidio di Giuseppe Fava furono condannati all’ergastolo il boss mafioso Nitto Santapaola, ritenuto il mandante, Marcello D’Agata e Francesco Giammuso come organizzatori, e Aldo Ercolano come esecutore assieme al reo confesso Maurizio Avola. Nel 2001 le condanne all’ergastolo sono state confermate dalla Corte d’appello di Catania per Nitto Santapaola e Aldo Ercolano, mentre sono stati assolti Marcello D’Agata e Franco Giammuso. L’ultimo processo si è concluso nel 2003 con la sentenza della Corte di Cassazione che ha condannato Santapaola ed Ercolano all’ergastolo e Avola a sette anni patteggiati.

Non al carcere duro dei boss

Appare strano, dunque, come Claudio Fava possa avallare l’idea dell’avvocatura dello Stato che desidera togliere il carcere duro ai boss.

“Io dico sì al ripensamento del 41 bis. E lo dico pur sapendo che i responsabili dell’omicidio di Giuseppe Fava sono ancora al 41 bis. Io credo che sia inumano quel trattamento, anche per quelle persone. Lo dico perché o ci assumiamo fino in fondo la nostra responsabilità di cittadini oppure la giustizia scivola sul crinale della vendetta personale.

Orlando: “una cosa ragionevole che si può e si deve fare”

Dello stesso avviso di Fava è anche il ministro del Lavoro, Andrea Orlando, uomo potente del Partito democratico. Orlando dice:

“Bisogna fare il punto seriamente sulla funzionalità di quella misura al contrasto alla mafia. Io penso che sia una cosa ragionevole che si può e si deve fare. Non leggiamolo solo dal punto di vista sistemico. Cerchiamo di capire se il modo con cui combattere la mafia ha una sua funzioanlità. È una distinzione che si può e che si deve fare.”

Orlando non fornisce una sua analisi personale ma va oltre. Traccia un orizzonte politico entro il quale il carcere duro per i mafiosi va tolto. E qualche “prova tecnica” di cancellazione delle norme generali è stata fatta con il governo Renzi di cui era ministro della Giustizia. Grazie alle azioni promosse per alleviare la situazione delle carceri italiane (aumento di capienza, riduzione degli ingressi e incremento delle pene alternative)ispirate al cambio di paradigma nell’organizzazione del sistema penitenziario indicato in sede europea la CEDU ha restituito tutti i ricorsi pendenti in materia di sovraffollamento e il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha promosso l’Italia e l’azione del Governo.

C’è da dire, però, che lo stesso Orlando come ministro della Giustizia portò avanti anche una serie di norme di contrasto alla mafia: fu fautore della riforma del reato di scambio elettorale politico-mafioso e della riforma del codice antimafia.

Norma incostituzionale

Visto che Fava e Orlando mettono la questione sul piano della civiltà e della giustizia, proprio in questi giorni è intervenuta la Consulta che ha dichiarato incostituzionale la norma che vieta di liberare i boss stragisti condannati all’ergastolo se non collaborano con la giustizia. La Consulta ha concesso un anno di tempo al Parlamento per intervenire sulla questione. Il motivo? I giudici della corte Costituzionale riconoscono che:

“l’accoglimento immediato delle questioni rischierebbe di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata“.

Praticamente i giudici dicono una cosa molto semplice e condivisibile: se fosse stata immediatamente dichiarata l’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo si sarebbe stato spazzato via l’intero sistema antimafia. E dunque il buon senso direbbe allo Stato di non riportare in libertà boss del calibro dei fratelli Graviano o di Leoluca Bagarella.

L’avvocatura dello Stato

A marzo, come abbiamo raccontato, l’avvocatura dello Stato, che rappresenta il governo, ha aperto alla possibilità di concedere la libertà condizionale ai condannati all’ergastolo ostativo. Si tratta di boss che non hanno collaborato con la giustizia. E nel farlo l’avvocatura cambia praticamente la sua posizione durante l’udienza pubblica davanti alla corte Costituzionale: non ha chiesto più di considerare inammissibile la richiesta della Cassazione. In pratica non chiede di dichiarare incostituzionale la norma che vieta ai condannati al fine pena mai per fatti di mafia e terrorismo di accedere alla liberazione condizionale se non collaborano con la magistratura (ergastolo ostativo).

L’avvocatura ha invitato la Consulta a emettere una sentenza che in gergo si chiama interpretativa di rigetto: la corte non dichiara incostituzionale la norma sull’ergastolo ostativo, ma riconosce al giudice di sorveglianza il potere di valutare a sua discrezione caso per caso. In parole semplici vuol dire che se il giudice vuole può concedere la libertà vigilata anche ai boss irriducibili, quelli che custodiscono i segreti delle stragi, a patto che abbiano scontato 26 anni di carcere. E senza che abbiano mai manifestato alcuna intenzione di collaborare con la giustizia.

La decisione della Consulta

“La Corte costituzionale, riunita oggi in camera di consiglio, ha esaminato le questioni di legittimità sollevate dalla Corte di cassazione sul regime applicabile ai condannati alla pena dell’ergastolo per reati di mafia e di contesto mafioso che non abbiano collaborato con la giustizia e che chiedano l’accesso alla liberazione condizionale. La Consulta ha anzitutto rilevato che la vigente disciplina del cosiddetto ergastolo ostativo preclude in modo assoluto, a chi non abbia utilmente collaborato con la giustizia, la possibilità di accedere al procedimento per chiedere la liberazione condizionale, anche quando il suo ravvedimento risulti sicuro.

Dunque tale disciplina ostativa, facendo della collaborazione l’unico modo per il condannato di recuperare la libertà, è in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione e con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Gli articoli della Carta citati sono quelli che discriminano come tutti i cittadini siano eguali davanti alla legge e le pene non possano consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e debbano tendere alla rieducazione del condannato. La norma della Convenzione europea dei diritti dell’uomo proibisce invece “la tortura e il trattamento disumano o degradante”.

Dunque, i giudici hanno decretato l’incostituzionalità della legge.

Ai condannati per fatti di mafia e terrorismo è vietato accedere alla liberazione condizionale se non collaborano con la magistratura. Da oggi in poi, invece, sarà possibile liberarli anche se non hanno aperto a una collaborazione con lo Stato. I boss irriducibili, quelli che custodiscono i segreti delle stragi, a patto che abbiano scontato 26 anni di carcere, potranno accedere a pene alternative. È per questo motivo che la Consulta fa notare come:

“l’accoglimento immediato delle questioni rischierebbe di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata”.

Quindi i giudici hanno deciso sì di dare una picconata – l’ennesima – a una delle principali leggi antimafia, ma concedendo un tempo supplementare alla politica.

“La Corte ha perciò stabilito di rinviare la trattazione delle questioni a maggio 2022, per consentire al legislatore gli interventi che tengano conto sia della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata di stampo mafioso, e delle relative regole penitenziarie, sia della necessità di preservare il valore della collaborazione con la giustizia in questi casi”.

Il Parlamento

Ora il Parlamento ha 12 mesi per modificare l’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario e il decreto legge 306 del 1992, ispirato da Giovanni Falcone già con un decreto dell’anno precedente, e approvato dopo la strage di Capaci per provare a rompere la breccia di omertà di Cosa nostra. Sono appunto le due norme che sbarrano la strada della libertà vigilata ai boss irriducibili che non collaborano con la giustizia. Solo che secondo la Consulta sono incostituzionali e dunque vanno riscritte.

L’udienza pubblica

L’udienza pubblica della Consulta sull’ergastolo ostativo si era fatta segnalare anche per un cambio di linea del governo. In un primo momento l’avvocatura dello Stato aveva chiesto di considerare inammissibile la richiesta della Cassazione. E cioè quella di dichiarare incostituzionale la norma che vieta ai condannati al fine pena mai per fatti di mafia e terrorismo di accedere alla liberazione condizionale se non collaborano con la magistratura. Durante l’udienza pubblica, invece, l’avvocato dello Stato Ettore Figliolia ha invitato la Consulta a emettere una sentenza che in gergo si chiama interpretativa di rigetto: la corte non dichiara incostituzionale la norma sull’ergastolo ostativo, ma riconosce al giudice di sorveglianza il potere di valutare a sua discrezione caso per caso.

Relatori, ex giudici e guardasigilli

Il giudice relatore della sentenza era Nicolò Zanon. Eletto al Csm nel 2010 su indicazione del Popolo delle Libertà, poi nominato alla Consulta da Giorgio Napolitano, Zanon ha fatto da relatore anche alla sentenza che nell’ottobre del 2019 definiva incostituzionale la parte dell’articolo 4bis sul divieto di accesso ai permessi premio, cioè il primo gradino dei benefici penitenziari, per i condannati all’ergastolo ostativo che non hanno collaborato con la magistratura. All’epoca alla Consulta sedeva anche Marta Cartabia, oggi guardasigilli di un governo che ora ha un anno di tempo per intervenire sull’ergastolo ostativo. Da quando è in via Arenula la guardasigilli non si è espressa sul tema specifico.

I boss che potrebbero essere liberati

Ad attendere la decisione della Consulta erano soprattutto 1.271 detenuti al “fine pena mai” che vorrebbero accedere alla libertà condizionale pur non collaborando con la giustizia. Tra questi ci sono sicuramente i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, i boss che custodiscono i segreti delle stragi del ’92 e ’93. Condannati all’ergastolo per le bombe che uccisero Falcone e Borsellino, per gli ordigni esplosi nel 1993 a Roma, Milano e Firenze, per l’omicidio del sacerdote don Pino Puglisi, si trovano in carcere dal 1994 ma sono ancora relativamente giovani: Filippo 59, Giuseppe 56.

Giovanni Falcone

“Consentire a un mafioso ergastolano che non abbia mai intrapreso la strada della collaborazione con la giustizia di godere di permessi premio sarebbe un clamoroso arretramento nella lotta a Cosa nostra“. È il commento di Maria Falcone, sorella del magistrato ucciso a Capaci e presidente della Fondazione che del giudice porta il nome, che interviene sulla questione dell’ergastolo ostativo per i mafiosi.

“Nella nostra legislazione ci sono punti fermi come l’ergastolo ostativo e il carcere duro che sono frutto del lavoro e dell’esperienza dei tanti servitori dello Stato che al contrasto ai clan hanno dedicato la vita. – spiega Maria Falcone – Indebolire una normativa costata sangue e sacrifici, che ha portato lo Stato a mettere a segno risultati importanti, sarebbe imperdonabile. Sono certa che la Corte Costituzionale, con la sensibilità che da sempre contraddistingue il suo operato – prosegue – nel decidere non dimenticherà le peculiarità delle mafie italiane che ai tempi indussero il legislatore ad adottare leggi come quella ora in discussione”.

Nino Di Matteo

“Poco alla volta, nel silenzio generale, si stanno realizzando alcuni degli obiettivi principali della campagna stragista del 1992-1994 con lo smantellamento del sistema complessivo di contrasto alle organizzazioni mafiose ideato e voluto da Giovanni Falcone“ ha detto il giudice Nino Di Matteo.

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