Mario Draghi ha deciso: il Reddito di cittadinanza non si tocca. Anzi: sarà rafforzato nell’azione di contrasto alla povertà e sarà collegato alle politiche attive del lavoro, ma non sarà superato.
Dunque, il reddito di cittadinanza a valle degli interventi per favorire l’occupazione e non il contrario, come in parte si è pensato di poter fare tre anni fa circa quando l’istituto è stato approvato dalla precedente maggioranza giallo-verde del Conte I, cioè M5S e Lega.
L’Italia è arrivata penultima, prima solo della Grecia tra i Paesi europei, a dotarsi di uno strumento per sostenere le fasce della popolazione più povere. Parrebbe poco comprensibile privarsene tanto più che durante il biennio della pandemia il reddito è stato importante per sostenere i meno abbienti.
Si parte dalla politiche attive del lavoro, il grande assente strutturale nel mercato del lavoro italiano.
Ed è grazie alle risorse europee che nel Recovery Plan si trovano 5 miliardi per provare a reinserire il mercato del lavoro 3 milioni di persone ricorrendo alla leva della formazione e della riqualificazione professionale. Nel Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza) sono indicati i percorsi per rendere occupabili (il piano si chiama Gol, Garanzia di occupabilità dei lavoratori) soprattutto giovani e donne che coinvolgeranno direttamente le Regioni, visto che le politiche del lavoro sono ripartite con lo Stato centrale.
Il ministro del Lavoro, Andrea Orlando, incontrerà su questo le parti sociali, Confindustria e sindacati.
L’incontro potrebbe essere quello conclusivo del negoziato, dopo la palla passerà alla Conferenza Stato-Regioni per il via libera definitivo.
E poi ci sono le politiche passive, quelle degli ammortizzatori sociali.
Nella prossima legge di Bilancio ci sarà la riforma degli ammortizzatori sociali che entrerà in vigore dal 2022. L’idea centrale della riforma è quella di un sistema di ammortizzatori sociali uguali per tutti, indipendentemente dal settore di appartenenza (manifattura o servizi, per esempio) e dal contratto di lavoro.
Per questo dovrà essere finanziato da tutte le imprese e nella prima fase richiederà l’intervento di risorse pubbliche (fino a 10 miliardi di euro). Non dovrebbero più verificarsi i casi di lavoratori in cassa integrazione per decenni perché scatteranno politiche per favorire la rioccupazione.
Infine il Reddito di cittadinanza, per chi è povero e si trova ai margini del mercato del lavoro rischiando di restarci perennemente. A marzo, il ministro Orlando ha istituito un Comitato scientifico per la valutazione del Reddito di cittadinanza, presieduto dalla sociologa Chiara Saraceno.
La commissione per il Reddito di cittadinanza si è impegnata a presentare le sue proposte entro la fine di settembre.
Ci si muove su due binari: rafforzamento delle misure per contrastare la povertà; aggancio alle politiche attive del lavoro. In totale, le persone che nel 2020 hanno ricevuto il Reddito (o la pensione) di cittadinanza sono state 3,7 milioni, per 1,6 milioni di nuclei familiari. Ma la misura (per i criteri di accesso) ha escluso più della metà degli indigenti.
Da qui l’idea, per esempio, di ridurre da 10 a 5 gli anni di residenza in Italia richiesti e di valutare diversamente il patrimonio posseduto. C’è poi la questione della cosiddetta scala di equivalenza: l’attuale reddito favorisce i single e penalizza le famiglie numerose.
Ci sarebbe anche il tema delicato del diverso costo della vita nelle regioni del Nord e del Sud, ma il governo non sembra affatto intenzionato a sollevarlo. Sistemata questa parte, si cercherà di fare del reddito di cittadinanza un ponte verso il lavoro. Ma circa due terzi di coloro che ora lo ricevono non hanno le caratteristiche per essere occupabili.