Salvatore Di Gangi, il braccio destro di Totò Riina investito da un treno
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Salvatore Di Gangi, 79 anni, capomafia fedelissimo di Totò Riina, ha terminato la sua vita, almeno ufficialmente, in una maniera sconcertante.

Lo hanno fatto scendere dal treno perché non aveva il Green pass. E, una volta alla stazione di Genova Principe, spaesato, ha imboccato a piedi la galleria che collega a Brignole. Fino a che un treno merci lo ha travolto. Il corpo è stato trovato tra due binari della galleria ferroviaria tra le stazioni di Genova Piazza Principe e Genova Brignole

Aveva in tasca un biglietto ferroviario per raggiungere una città del Sud. Ma il boss di Sciacca, che da poco si era lasciato alle spalle il carcere di Asti, a destinazione non è mai arrivato. La sua vita si è conclusa sabato alle 20.30 su un binario ferroviario a Genova. Sulla sua fine la Procura del capoluogo ligure ha aperto un fascicolo per omicidio colposo a carico di ignoti. Il sostituto procuratore della Dda Federico Manotti, che coordina le indagini, aveva già disposto l’autopsia. Il padrino era detenuto per scontare una condanna a 17 anni per mafia nella città piemontese. Era stato scarcerato dalla corte d’appello di Palermo da poco. Alla base della decisione una perizia che ne attestava deficit cognitivi.

Dai primi accertamenti medico-legali sul corpo, inoltre, non erano emersi segni di violenza.

Tuttavia la dinamica dell’incidente all’inizio era sembrata poco chiara e gli agenti della Polfer e della squadra mobile si erano messi subito al lavoro per capire se realmente si fosse trattato di un fatale incidente o se sotto ci fosse altro.

Il nome di Salvatore Di Gangi, del resto, è di quelli che pesavano dentro Cosa Nostra. Considerato a lungo padrino a Sciacca, comune portuale in provincia di Agrigento, e uno dei luogotenenti di Totò “u curtu”.

Nel 2018 era finito dietro le sbarre nell’ambito dell’operazione ‘Montagna’, che aveva assestato un duro colpo alle cosce dell’agrigentino. Così a Di Gangi, ex dipendente bancario diventato poi costruttore edile, erano stati inferti 17 anni di prigione. Era tornato però sotto i riflettori anche pochi mesi fa, perché secondo le indagini era riuscito a rimettere le mani sul complesso alberghiero “Torre Macauda”, un tempo di proprietà dell’ingegnere Giuseppe Montalbano, attraverso la società “Libertà Immobiliare” da lui controllata. A ottobre, insieme al figlio Alessandro e ad altre sei persone, aveva ricevuto l’ultimo avviso di garanzia, perché per gli inquirenti padre e figlio erano tornati in possesso di quel complesso turistico sommerso dai debiti, attraverso una serie di operazioni illecite, un giro ingente di denaro, imprenditori “amici” e un dirigente di banca che avrebbe rilasciato una quietanza per un pagamento di 8 milioni avendone ricevuti solo quattro.

L’indagine, molto complessa, aveva portato all’esecuzione di perquisizioni in due filiali della UniCredit di Palermo e alla notifica di otto avvisi di garanzia.

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