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L’ammontare del patrimonio è di 48 milioni di euro ed è stato sequestrato dalla Guardia di finanza di Palermo agli eredi del creatore di un gruppo imprenditoriale che ha curato tra gli anni ’80 e ’90, la metanizzazione in diverse aree della Sicilia e non solo.

L’ammontare del patrimonio è di 48 milioni di euro ed è stato sequestrato dalla Guardia di finanza di Palermo agli eredi del creatore di un gruppo imprenditoriale che ha curato tra gli anni ’80 e ’90, la metanizzazione in diverse aree della Sicilia e non solo. Per l’accusa avrebbero fatto affari con la mafia attraverso appalti e subappalti a imprese controllate dai boss. Le indagini, coordinate dal procuratore aggiunto Vittorio Teresi e dal sostituto Dario Scaletta, hanno portato alla luce infiltrazioni di Cosa nostra e di suoi capi storici, tra cui Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella e Matteo Messina Denaro, negli affari delle società che dopo la morte del fondatore furono cedute nel 2004 dai suoi familiari per 115 milioni di euro, poi reinvestiti in diverse attività economiche tra la Sicilia e la Sardegna. L’imprenditore, con l’appoggio politico dell’ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino, aveva ottenuto 72 concessioni per la metanizzazione in altrettanti Comuni non solo della Sicilia, ma anche dell’Abruzzo.

LE INDAGINI

Le indagini sono concentrate sulla nascita del gruppo, costituito negli anni ’80 da un dipendente pubblico divenuto imprenditore investendo ingenti risorse finanziarie di dubbia provenienza e comunque non giustificate dalle sue disponibilità. Il suo gruppo aveva raggiunto ottimi livelli economici espandendosi con estrema velocità. Ciò reso possibile grazie alla protezione dei mafiosi e alla mediazione di Vito Ciancimino, che gli fece ottenere ben 72 concessioni per la metanizzazione di Comuni della Sicilia e dell’Abruzzo. I lavori sono stati in più occasioni affidati in sub appalto ad imprese direttamente riconducibili a persone con precedenti specifici per mafia o comunque vicine alla criminalità organizzata. In tal senso, gli investigatori hanno sottoposto a riscontri le dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia, come Giovanni Brusca, Vincenzo Ferro, Antonino Giuffrè, ma anche il contenuto di alcuni ‘pizzini’ sequestrati nel tempo a capimafia, esaminando decine di contratti di appalto e sub appalto per risalire agli interessi mafiosi occulti. È stata poi ricostruita la storia economico finanziaria delle diverse società del gruppo in parallelo a quella della ricchezza accumulata nel tempo dalla famiglia del fondatore, subentrata nelle gestione delle diverse società dopo la sua morte, avvenuta nel 2000. Gli investigatori hanno tracciato le operazioni di cessione dell’intero pacchetto azionario e del patrimonio delle società, operazione perfezionata nel 2004, per un corrispettivo di circa 115 milioni di euro. Un capitale che, sempre grazie all’appoggio di Cosa Nostra, è stato reinvestito nella costituzione di nuove società, in attività commerciali e nell’acquisto di beni immobili a Palermo e nella provincia di Sassari. Il sequestro, disposto dalla sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, ha colpito beni dislocati tra Sicilia e Sardegna e comprendenti società immobiliari e di produzione di metalli preziosi, imprese agricole, attività commerciali, oggetti d’arte, appartamenti, uffici, locali affittati come negozi e magazzini ad importanti aziende, molti dei quali nel centro di Palermo, immobili di pregio, opifici industriali, autorimesse e disponibilità bancarie.

L’ABRUZZO MAFIOSO

Il tesoro di Ciancimino fu scoperto anni fa da alcune inchieste. I beni riciclati finirono anche in Abruzzo, nella Marsica, nei settore gas e turismo. I soldi erano legati agli appalti della società Gas, secondo i pm di Palermo Nino Di Matteo, Sergio Demontis, Paolo Guido e all’ex procuratore aggiunto Antonio Ingroia, sarebbero serviti per pagare politici «di tutti gli schieramenti», assicurò Gianni Lapis. Il settore produsse 120 milioni di euro solo per la vendita agli spagnoli della Gas natural di Vito Ciancimino. Il prestanome delle quote era Lapis sia dell’ex sindaco sia di Provenzano. Provenzano e Ciancimino erano arrivati a Tagliacozzo attraverso la società palermitana che gestisce la rete del gas del comune abruzzese. I 120 milioni della vendita della società sono poi stati reinvestiti in Romania, Belgrado e anche nella “Alba d’oro srl”, la società impegnata nella realizzazione della struttura ricettiva. All’epoca finirono in manette Nino Zangari, 44 anni, ex assessore ai lavori pubblici del Comune di Tagliacozzo, e i fratelli Augusto e Achille Ricci di 47 e 51 anni. 
Zangari al 2007 deteneva il 16,5% del capitale sociale della società Alba d’Oro, Augusto Ricci deteneva il 17% del capitale della stessa società, mentre il fratello il 16,5%. 

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