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Ieri analizzava le particelle della materia, oggi cura l’anima seguendo i codici della vita spirituale. Stefano Visintin ha cambiato totalmente lo sguardo sul mondo.

Lui abita a Praglia, nel cuore dei Colli Euganei, fra campi di girasoli e boschi di castagni. Lì ,nell’abbazia benedettina dove pregano e lavorano una quarantina di monaci professi.

Il percorso dell’abate

Stefano Visintin ha sessantunanni, un aspetto giovanile e dei modi semplici che nascondono un passato sorprendente. Prima di arrivare alla vita monastica, l’abate Visintin faceva lo scienziato. Si occupava di acceleratori di particelle nell’ambito di un progetto dell’Istituto nazionale di Fisica nucleare.

Dalla scienza alla teologia

“Studiavo spettrometria di massa ad alta energia, cioè la presenza di elementi chimici molto rari, tipo quelli dei meteoriti” racconta. “… le domande rimanevano però senza risposta. Perché la scienza è insuperabile per conoscere la natura ma è anche impotente di fronte al primo interrogativo: cosa guida il mondo? Più mi armavo di strumenti tecnici e più aumentavano i dubbi. Ho capito cioè che sopra certe quote c’è solo la trascendenza e così a un certo punto ho detto no, non posso continuare su questa strada. E mi sono affacciato alla spiritualità monastica. Non è stato facile ma è stata la scelta giusta“. Una scelta che lo ha portato a un’immersione totale nella teologia: laurea, dottorato, insegnamento. E, dallo scorso anno, abate in Praglia.

Dalle formule alla fede

Visintin è immerso in un paradiso, tra orto, pomodori, melanzane, zucchine, anatre, oche, polli e vigneti. E ancora più in là, oltre il bosco e oltre il monte c’è, sotto il cielo, Vo’ Euganeo, il paese simbolo della nuova peste.

Il ritmo lento della pandemia

“Eravamo tornati allo spirito più austero, più intenso della regola benedettina. L’ho considerato un momento di grazia particolare che ci ha consentito di vivere l’essenza della vita monastica. Nessun turista, nessun ospite, negozio chiuso” racconta Visintin parlando del periodo del lockdown. “La pandemia mette in discussione la fiducia smisurata che questa civiltà ripone nella scienza e nella tecnica. Ci ricorda che siamo tremendamente fragili, che tutto può finire, che la materia finisce. Il virus ci sta dicendo che forse siamo stati troppo arroganti“.

L’arroganza e il messaggio

“La scienza non ci potrà mai salvare da ogni nostro male e la pandemia lo sta dimostrando. Basta un virus, un essere invisibile, e viene a galla tutta la debolezza della condizione umana. L’uomo non sarà mai autonomo, autosufficiente. C’è qualcosa di molto più grande che sta sopra di noi e nulla potrà mai superarlo. Il peccato originale è sempre lo stesso: l’uomo che vuole farsi Dio. Magari è questo che Dio ha voluto dirci: bisogna essere più umili, spirituali“.

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