Il Cerchio, storia di magistrati, politica e stampa. Il “suicidio perfetto” del potere
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Domenica sera, a Non è l’Arena, programma condotto da Massimo Giletti, è andato in onda un vero e proprio “suicidio”, senza sangue e senza morti. Lo scontro telefonico tra il procuratore antimafia e membro del Csm, Nino Di Matteo e il ministro di Giustizia, Alfonso “Fefè” Bonafede, mette una pietra tombale sopra uno dei più potenti “assembramenti” di potere mai registrati negli ultimi venti anni. Una di quelle forme organizzative non scritte e non riconosciute. Le quali, negli ultimi anni, hanno reso concreto un disegno studiato a tavolino. Un percorso che doveva portare a un obbiettivo che accontentasse sia la parte legata alla magistratura, sia quella legata alla politica (Movimento Cinquestelle). A fare da collante, come spesso succede, un giornale. Un megafono che riuscisse a fare da grancassa agli uni e agli altri: il Fatto quotidiano

La trasmissione e l’innesco di De Magistris

L’argomento che Giletti stava trattando, era quello riferito al pericolo di scarcerazione di massa per i boss in regime di 41 bis, l’uscita dal carcere sassarese di Pasquale Zagaria, fratello del boss Michele Zagaria e le dimissioni del Capo Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Francesco Basentini. Gli ospiti principali erano Catello Maresca, procuratore a Caserta, Claudio Martelli, Luigi De Magistris sindaco di Napoli ed ex pm, Dino Giarrusso (M5s) e Luca Telese. Niente da segnalare per gran parte del dibattito, lo spezzone della trasmissione sembra filare liscio tra schermaglie e sovrapposizioni di voci. Uno spettacolo abbastanza usuale per il programma di Giletti. Proprio in questo scambio di opinioni, quasi in sordina, in modo quasi incomprensibile, Luigi De Magistris fa scivolare il nome di Nino di Matteo, accompagnandolo con una frase sibillina riguardante il Dap. Se fosse stata un’intercettazione, sarebbe stata catalogata come incomprensibile. Eppure, dopo pochi minuti avviene ciò che nessuno poteva aspettarsi: la telefonata in studio dello stesso Di Matteo, uno dei due magistrati più protetti dal pericolo mafioso. Una delle icone, da sempre, del Movimento Cinquestelle. Uno dei magistrati più osannati dal giornale di Travaglio, che vide in quell’uomo e la sua teoria sulla Trattativa Stato-Mafia, il perfetto ariete per l’ala giustizialista grillina in chiave antiberlusconiana. L’esempio dell’uomo solo contro il potere.

La “bomba”

L’assist millimetrico (e per niente casuale) di De Magistris è arrivato sui piedi di Di Matteo che, da “zero metri” ha calciato in rete un pallone “pesantissimo”, raccontando ciò che nessuno poteva immaginare: la resa dello Stato, rappresentato dal ministro Bonafede, alle pressioni che arrivavano dal carcere contro la nomina al Dap del magistrato siciliano. Una nomina proposta dallo stesso ministro a Di Matteo e che lo stesso intendeva accettare. Una proposta che non fu confermata dallo stesso Guardasigilli. Questo è il sunto di ciò che ha lasciato trasparire dalla narrazione dei fatti il magistrato siciliano. E che ha ribadito anche dopo la replica del ministro Bonafede che ha parlato di “percezioni sbagliate”. Una bella arrampicata sugli specchi, da parte del pentastellato, che è servita solo a rendere il rumore, un frastuono.

Il Cerchio e la sua rottura

Questa però è solo ciò che si vede, rispetto al vero significato di tutta questa “sceneggiata organizzata”. Il valore di questi fatti non è tanto nella presunta resa dello Stato alle mafie (Che la sola la presunzione dovrebbe essere reato per decreto). E’ il “suicidio” del “Cerchio ” quello che si potrebbe definire la tempesta perfetta.

Abbiamo un gruppo di magistrati che si distinguono, bene o male, in attività antimafia e non solo. Come “uomini di punta”: un Nino Di Matteo, marchiato a fuoco da una Trattativa Stato-mafia che non sembra dare, dopo anni, i frutti sperati. Un Nicola Gratteri che si erge per due cose principalmente: mastodontiche operazioni di polizia per numero di arresti, cui non corrispondono grandi o medi numeri di condannati fino all’ultimo grado e la sua capacità mediatica di essere ovunque. Di poter parlare di ogni cosa che riguardi la giustizia o l’universo mondo. Nonostante lo stesso Mattarella, a inizio anno giudiziario, chiese meno presenze “sceniche” nei media.

Una bilancia “ad personam”

Eppure, le icone sono loro, oggi. Icone create a colpi di interviste sui giornali, minacce subite più o meno concrete, innalzamento delle scorte e dei dispositivi di protezione. Intorno a loro una pletora di magistrati “buoni”, amici, sicuramente bravi e funzionali. Gli stessi, che un secondo dopo la trasmissione, non hanno aperto un fascicolo sulle dichiarazioni di Di Matteo. Gli stessi che dovrebbero chiedere lumi sul perché Di Matteo non palesò i suoi dubbi, se questi erano solo dubbi, mentre era alla Direzione nazionale antimafia o quando entrò nel Csm. Quel Csm che ha usato un metro diverso in altre situazioni. Non si può dimenticare che pochi mesi fa, lo stesso organismo ha aperto un procedimento nei confronti del Procuratore della Repubblica di Catanzaro, Otello Lupacchini. Colpevole, secondo loro, di aver criticato troppo aspramente in tv l’altra icona dell’antimafia del “Cerchio”, Nicola Gratteri. Con la differenza, che una critica non ha lo stesso valore della pesante accusa fatta da Di Matteo, ieri sera, al ministro della giustizia e che Lupacchini, contrariamente al magistrato siciliano, ha sempre denunciato al Csm ogni comportamento fuori dalla norma di Gratteri. In tempo reale.

Questo “Cerchio” non è fatto solo da uomini con la toga. Il ministro Bonafede  è il filo con la politica. Con il Movimento. Bonafede ha sempre coperto le sue icone, anche quando non era il caso di farlo. L’esempio dell’affaire Lupacchini ne è la prova provata. E’ il ministro, infatti, che si spende concretamente per fare trasferire e demansionare il procuratore generale di Catanzaro. E’ lui che, per difendere la sua icona calabrese, scalpita, si palesa in un momento in cui l’indipendenza della magistratura dovrebbe essere ipergarantita rispetto a un ruolo politico come quello di “Fefè”. Eppure lo fa. Il “cerchio” va difeso e va sostenuto mediaticamente. Stranamente, oltre ogni consuetudine.

I media

La stampa, per molti versi, ha la colpa di non aver guardato oltre il proprio naso. Da Fazio alla Gruber, dalla Rai a Mediaset, tutti hanno partecipato alla “resurrezione impossibile”: creare due magistrati che potessero sostituire nell’immaginario collettivo, le figure di Falcone e Borsellino. Un vero insulto. Peggio sono riusciti, in quest’opera d’ipnotismo mediatico, l’house organ penta stellato, il Fatto quotidiano e La 7.

Come riuscirà Travaglio a gestire l’anomalia creata da Di Matteo? Chi lancerà dalla torre del suo giornale? Il magistrato icona, che ha nascosto a tutti questo terribile dubbio o il ministro che rappresenta una delle colonne del M5s sulle pagine del Fatto? Come riuscirà a riparare il cortocircuito che metterà con le spalle al muro entrambi i contendenti. Perché, se da un lato abbiamo un magistrato che denuncia tardivamente dei fatti, dall’altro c’è un ministro che quei fatti non può spiegarli e che resterà sempre colui che si arrese ai boss mafiosi. Anche se non è così.

Una commissione muta 

Se questi fatti, vestiti di approssimazione e mediocrità, sono e saranno un marchio indelebile per i due contendenti, per il resto del “cerchio” il tempo prevede tempesta. Uomini come Nicola Morra, presidente della commissione antimafia e stretto collaboratore del ministro Bonafede, qualche risposta dovrà darla. Nel suo continuo tessere rapporti tra magistrati e ministro, forse, dovrebbe occuparsi seriamente delle parole dette da Di Matteo e trovare tutti i riscontri del caso. Il suo silenzio non basta per levarsi dalla bagarre. E’ responsabile nella stessa misura del suo compagno di partito Bonafede. Non basta chiedere l’ennesima task force per adempiere al proprio dovere. Servono risposte veloci, concrete, basate sulla realtà dei fatti e non sui calcoli di “bassa politica interna” al Movimento.

L’antimafia dell’#

E’ un “Cerchio” che si è rotto, definitivamente. E queste scorie saranno un grosso problema per l’antimafia ufficiale. Quella che si è sempre spesa nel tessere lodi sperticate e genuflessioni davanti a una toga, quella che “#iostocondimatteo” o “#iostocongratteri”. Una massa di persone innamorate più dell’immagine che dell’essenza nel fare antimafia. Quelle che non riescono a distinguere e a dimettersi dal ruolo di fans. Cosa faranno adesso che “il re è nudo?” Adesso che non hanno più certezze ma dubbi e incubi. Che ogni loro difesa alla verità è stata abbattuta dai loro stessi Golem di sabbia? L’antimafia è una cosa seria. Non è creando e seguendo icone senza mai criticarne l’operato, che resteranno senza macchia. Fare antimafia è un continuo esame con la propria coscienza e con la propria dignità. La stessa dignità persa ieri sera in quello studio televisivo, la stessa persa dentro al Csm, dentro al Ministero di Giustizia, dentro alla sede della commissione antimafia, dentro a Movimenti e media. Dentro agli occhi di chi spera che la mafia non sia la mano che stringiamo ogni giorno, dietro i volti che ci guardano, dentro parole che ci affascinano.

 

di Alessandro Ambrosini
Nottecriminale.news

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