L’autostrada A14, la grande arteria che unisce il nord al sud d’Italia, è diventata il simbolo di un Paese fermo nei cantieri e nel tempo.
Per anni, chilometri di asfalto hanno raccontato la stessa storia: deviazioni, code infinite, lavori “necessari” che sembrano non finire mai. Ma dietro le transenne e le luci arancioni non c’è solo inefficienza. C’è un intreccio di inchieste, direttive europee dimenticate e responsabilità politiche rimpallate come fossero burocrazia di ordinaria amministrazione.
Dietro la superficie dell’asfalto, si nasconde la verità più scomoda: un sistema che ha preferito rinviare manutenzioni per decenni, fino a quando la tragedia del Ponte Morandi ha imposto all’Italia di guardare in faccia il proprio fallimento strutturale.
Le radici del problema: decenni di manutenzioni rinviate

La rete autostradale italiana, affidata in concessione a Autostrade per l’Italia (ASPI), avrebbe dovuto garantire sicurezza, manutenzione costante e innovazione.
E invece, secondo la stessa ammissione del presidente della Regione Abruzzo Marco Marsilio, la A14 è stata “gestita per decenni senza le dovute manutenzioni”.
Una dichiarazione pesante, che fotografa perfettamente ciò che molti automobilisti e camionisti vivono ogni giorno.
Ma la mancata manutenzione non è solo una colpa gestionale. È una responsabilità politica e sistemica: una catena lunga decenni fatta di proroghe, rinnovi di concessione e silenzi istituzionali.
Mentre le direttive europee imponevano standard di sicurezza sempre più rigidi, il Paese si accontentava di tamponare emergenze.
La direttiva europea che l’Italia ha ignorato

Nel 2004 l’Unione Europea approvava la Direttiva 2004/54/CE, un testo chiaro e vincolante: tutti gli Stati membri dovevano mettere in sicurezza le gallerie della rete transeuropea (TEN-T), adeguandole a standard su ventilazione, illuminazione, uscite di emergenza e sistemi di controllo.
L’Italia recepì la direttiva con il Decreto legislativo 264 del 2006, ma poi lasciò che tutto restasse sulla carta.
I termini per completare i lavori — fissati inizialmente entro il 2019 e poi spostati — furono più volte rinviati. Così, quando arrivò la tragedia del Ponte Morandi nel 2018, il Paese scoprì che molte gallerie e viadotti non rispettavano ancora le norme europee di sicurezza.
Il Ministero delle Infrastrutture dovette correre ai ripari, istituendo ANSFISA, l’Agenzia nazionale per la sicurezza di ferrovie e infrastrutture stradali, con il compito di controllare ciò che i concessionari avrebbero dovuto fare da anni.
La “tempesta perfetta”: gallerie, viadotti e sequestri

Nel frattempo, la giustizia iniziava a muoversi.
Tutto partì lontano dall’Abruzzo: la Procura di Avellino, indagando sul disastro del bus precipitato dal viadotto Acqualonga nel 2013, scoprì irregolarità diffuse sulle barriere bordo-ponte.
Da lì nacque una inchiesta nazionale che portò al sequestro di decine di viadotti lungo la rete autostradale, compresi alcuni tratti cruciali della A14: Vomano, Colonnella, Fonte dei Preti, Cerrano.
Nel gennaio 2020, il GIP di Avellino, Fabrizio Ciccone, firmò un provvedimento durissimo:
“Le pile del viadotto Cerrano risultano spostate di sette centimetri. Sussiste un concreto pericolo per la pubblica incolumità.”
Il sequestro scatenò il caos. File chilometriche, autostrade bloccate, mezzi pesanti dirottati su strade provinciali.
Eppure, quel provvedimento segnava un punto cruciale: la responsabilità diretta del gestore, Autostrade per l’Italia, per lavori di manutenzione non eseguiti o eseguiti male.
Quando la sicurezza arriva tardi

Solo dopo anni di incuria e indagini, ASPI avviò un piano straordinario di interventi.
Gallerie da adeguare, viadotti da consolidare, barriere da rifare: tutto insieme, tutto in ritardo.
Il risultato? Una “tempesta perfetta” — come l’ha definita Marsilio — fatta di cantieri ovunque e disagi senza fine.
Il problema non è solo il traffico, ma la concentrazione dei lavori in pochi anni.
Se i piani di manutenzione fossero stati distribuiti nel tempo, oggi non assisteremmo a questo collasso organizzativo.
Ma per decenni, la politica e i gestori hanno preferito rimandare, guadagnando sul breve termine e perdendo nel lungo.
Lo Stato sapeva: e non ha agito in tempo

Dopo il Ponte Morandi, il governo annunciò la “tolleranza zero”.
Eppure, i ministeri competenti — dal Toninelli di allora a Salvini oggi, passando per De Micheli e Giovannini — non hanno mai aperto un vero dossier pubblico sulla responsabilità pregressa di ASPI.
Anzi, nel 2021 lo Stato ha scelto un’altra strada: una transazione miliardaria.
Invece di revocare la concessione, ha negoziato con Autostrade un “III Atto Aggiuntivo”, firmato nel 2022 e approvato con decreto nel 2025, che prevede 3,4 miliardi di euro di compensazioni e un rafforzamento dei controlli.
In pratica, un condono mascherato da riforma.
Nella seconda metà dell’inchiesta approfondiremo:
– perché la revoca ad ASPI non è stata possibile,
– come la politica abruzzese si è mossa tra Roma e Bruxelles,
– e cosa dicono davvero i protagonisti, Marsilio e D’Alfonso.
A14: la verità nascosta tra politica, concessioni e silenzi di Stato

Quando si parla di infrastrutture, la politica italiana è sempre pronta a intervenire davanti alle telecamere.
Ma sulla A14, i riflettori si accendono solo quando la rabbia degli automobilisti diventa virale sui social.
Dietro quei cantieri infiniti si nasconde una scelta precisa: non toccare la concessione di Autostrade per l’Italia.
La mancata revoca: un atto politico prima ancora che tecnico

Dopo il crollo del Ponte Morandi, l’Italia avrebbe potuto revocare la concessione ad ASPI.
Il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, però, ha scelto la via più cauta e politicamente meno rischiosa: la trattativa.
Il risultato è noto: nel 2021 lo Stato firma un accordo con ASPI da 3,4 miliardi di euro, accettando di non procedere con la revoca, in cambio di investimenti e un controllo più stretto.
Nel 2025, il MIT approva con decreto il III Atto Aggiuntivo: una rinegoziazione della concessione che, nelle intenzioni, “rafforza i poteri di vigilanza pubblica e introduce nuove sanzioni”.
Ma nella sostanza, la gestione resta ad Autostrade per l’Italia, ora partecipata da CDP Equity insieme a Blackstonee Macquarie, cioè anche con capitale pubblico.
È la classica soluzione italiana: lo Stato entra in società con il soggetto che avrebbe dovuto controllare.
Il paradosso delle gallerie e il silenzio dei ministeri

La Direttiva 2004/54/CE — quella che impone la messa in sicurezza delle gallerie — è chiara: entro la scadenza, ogni Paese doveva assicurare la conformità delle opere.
In Italia, la scadenza è stata superata più volte.
Oggi, secondo i report ANSFISA, oltre il 30% delle gallerie della rete TEN-T necessita ancora di interventi significativi.
Ma nessun ministro si è assunto la responsabilità di dire che il sistema delle concessioni ha fallito.
Dal 2018 a oggi, si sono alternati quattro titolari del MIT, ma nessuno ha osato mettere in discussione la struttura stessa della rete.
Le relazioni dell’Agenzia parlano chiaro: ispezioni aumentate, criticità persistenti, cantieri rallentati.
È il segno di un Paese che ha scelto di convivere con l’emergenza, piuttosto che affrontarla.
Il ruolo della Regione Abruzzo

Nel mezzo di questa impasse nazionale, il presidente Marco Marsilio rivendica di aver “imposto una nuova organizzazione dei lavori” durante i periodi estivi.
In effetti, dal 2021, la Regione Abruzzo ha mediato con MIT e ASPI per sospendere i cantieri nei mesi di punta turistica, riducendo le code chilometriche.
Un’azione pragmatica, ma che non risolve il nodo di fondo: la sicurezza strutturale.
Marsilio ha più volte sottolineato che “la Regione non ha competenza diretta sulla gestione dell’A14”, ma solo un ruolo di pressione politica.
È vero.
Ma è anche vero che la voce dei territori, per anni, è rimasta inascoltata mentre i viadotti mostravano crepe e le inchieste si accumulavano.
Marco Marsilio
“L’autostrada A14 è stata gestita per decenni senza le dovute manutenzioni.
Poi è arrivata la tragedia del Ponte Morandi e Aspi ha dovuto dare corso a lavori che, se fossero stati distribuiti nei decenni, non avrebbero impattato così pesantemente.
Ho preteso un’organizzazione diversa dei cantieri e oggi il traffico estivo scorre meglio.”
(Dichiarazione Facebook, ottobre 2025)
Il ruolo di Luciano D’Alfonso

Da ex presidente della Regione e oggi senatore, Luciano D’Alfonso segue da vicino il dossier A14.
Fu tra i primi, nel 2020, a chiedere trasparenza sui motivi del sequestro del viadotto Cerrano e sui tempi di riapertura.
In un video diffuso allora, dichiarò:
“Il dissequestro non basta. Serve un piano pubblico di manutenzione e controllo che non dipenda dai tempi del concessionario.”
Le sue parole risuonano ancora oggi, mentre i lavori proseguono senza una data certa di fine.
Le responsabilità di un sistema che non cambia

Il caso A14 è un microcosmo del modello infrastrutturale italiano: privatizzazione dei profitti, socializzazione delle perdite.
Lo Stato affida, controlla poco e poi interviene con fondi pubblici per rimediare agli errori del privato.
La tragedia del Morandi avrebbe dovuto cambiare tutto, ma sei anni dopo i problemi sono ancora lì, solo più nascosti sotto la colata di cemento dei nuovi cantieri.
Chi paga?
I cittadini, ogni giorno, in tempo perso, carburante sprecato, ansia e sfiducia.
E mentre i vertici si alternano e gli accordi si firmano, resta un’unica certezza: la verità corre più lenta delle auto in coda sulla A14.
La sicurezza non è un optional

La A14 è il simbolo di come in Italia la manutenzione arrivi sempre dopo, mai prima.
Serve una rivoluzione culturale prima ancora che tecnica:
rendere pubblici i cronoprogrammi, obbligare i concessionari a pubblicare gli stati di avanzamento, fissare per legge la trasparenza dei fondi e degli appalti.
Perché la sicurezza non è una voce di bilancio: è un diritto.
E finché non lo capiremo, continueremo a guidare su una rete che promette velocità, ma consegna solo paura.
✍️ di Antonio Del Furbo – Zone d’Ombra TV